Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film
Premio della giuria ex-aequo con lo splendido Mommy di Dolan, Adieu au langage fa presagire già solo dal titolo la sua natura complessa e fuori dal comune. Che sia un visionario (e socialista) di Godard lo si sapeva, ma nei primi minuti di Adieu au langage lo si nota ancor di più. Lotta continua, Flaubert, Solzhenitsyn caratterizzano i primi 5 minuti. E poi c'è un cane. E poi c'è una coppia. E poi c'è anche un'idea che, come si sa, è molto semplice. Ci sono due persone che si amano e discutono (volano anche dei pugni!), passano le stagioni e diventano tre personaggi, perché c'è anche il cane. Inizia anche un altro film che forse è uguale al primo, forse no. Dalla natura alla metafora il tutto converge in abbai e pianti di bimbo. Il film è semplicemente questo. Ma ci dice anche altro, molto altro. Ci dice che noi siamo umiliati, non umili e così da Adieu arriviamo ad Ah dieux. Oh langage vedremo scritto anche sullo schermo. Ecco che il titolo viene rivisitato dal regista in corso d'opera: Oh langage, Ah dieux. Ah dei, dove siete? Non ci sono, appunto. Qui c'è l'uomo e le sue invenzioni. Che per un uomo sono lo zero e l'infinito, come l'opera di Koestler, riflessione suggeritagli da un certo Laurent Schwartz, anche lui, come Koestler, di idee politiche affini a quelle di Godard. Per una donna, però, quali sono queste invenzioni? Il sesso e la morte, ovviamente. Non c'è mai la possibilità di univocità della realtà. Ogni cosa può essere messa in discussione. Quasi Cartesio, ma forse più uno Spinoza. O forse Hobbes, perché no? C'è anche lui qui, come ci sono Richelieu e Machiavelli. Come c'è l'arte, la tanto amata arte, ora la pittura, perché c'è Monet che capeggia una delle monumentali citazioni del film. Perché di citazioni ce ne sono, ma sono lampanti, così tanto evidenti da essere sfuggenti. Ora è la letteratura, con Faulkner, Conrad, Sartre, ora la filosofia. E la vera magia del film sta proprio in questo, nella capacità di dialogare. Curioso il fatto che proprio un film che si chiama Addio al linguaggio abbia questa incredibile caratteristica. Questa è l'arte che parla con l'arte. Il cinema che parla con se stesso, Godard si riferisce amichevolmente (e velatamente) al Tarkovskij di Solaris o più apertamente al tormentato e intenso pittore Nicolas de Stael. La musica, in special modo i motivi di Tchaikovsky, Kancheli e Beethoven, invade quasi impercettibilmente lo schermo. Risulta una presenza evanescente e tangibile allo stesso tempo. Lo spettatore è quindi talmente immerso in qualcosa di più grande di lui, in un delirante ibrido audio-visivo che non permette vie d'uscita. Godard è cosciente di questa potenza e assesta colpi su colpi all'anima di chi guarda. Dopo un inizio denso, pieno di simboli e riferimenti, più o meno nascosti, in cui si parla di Natura, ormai il regista ha catturato lo spettatore ed è qui che assesta i colpi più potenti. 2. La metafora, questo è il secondo capitolo, o secondo film. Diventa difficile restare da soli, dirà una voce, che aggiunge poi che non è l'animale a essere cieco, ma l'uomo, accecato dalla coscienza, incapace di guardare il mondo. Chiederà una donna in un altro momento qual è la differenza tra un'idea e una metafora e non avremo tempo di rispondere perché mille altri interrogativi verranno posti, a volte verranno date delle risposte, a volte no. Quindi cos'è questo film? Cosa non è? Si può considerare un'opera d'arte cinematografica? Non c'è risposta, perché ognuno di noi, al termine della visione di questo film, di certo non avrà parole per descriverlo. Ecco quindi compiuto l'addio al linguaggio.
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