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Adieu au langage - Addio al linguaggio

Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film

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La recensione su Adieu au langage - Addio al linguaggio

di logos
8 stelle

Purtroppo non l'ho visto in 3D e questo è già una grossa lacuna, perchè non ho potuto fruire appieno dell'estetica che presenta questa pellicola, che in tale livello raggiunge un'espressione comunicativa sensoriale al di là del linguaggio verbale, ma per esserne una lancinante apologia come possibile-impossibile ricostruzione del mondo...

Devo anche dire che non l'ho visto come avrei dovuto, perchè continuamente disturbato, ma a parte questi ostacoli personali credo che sia davvero difficile dire quel che si prova vedendo un film del genere, con le sue riprese, angolazioni, colori vivissimi, interruzioni d'effetto su riflessioni pazzesche, mentre tutto intorno, nella pellicola, gira sulla natura, sui corpi, sui libri, su riprese di altri film, su quadri e rievocazioni della Shelley quando scrisse il Frankenstein...

 

 

E' difficilissimo esprimere una recensione, su questo film, anche perché con le sue immagini coloratissime e abbaglianti, scure e cupe, con il suo veloce scorrere e interrompersi di colpo, tra lo zero e l'infinito, tra l’amore e la morte, viene messo a nudo la coscienza contemporanea nella sua incomunicabilità esistenziale, quale esisto di una storia dove Hitler aveva già previsto tutto, dove il totalitarismo ha raggiunto vertici nichilistici con le sue reti telematiche nelle quali le icone tastate da un pollice possono recuperare, senza elaborazione critica, spazi di memoria che vivono per delega digitale.

 

Ma allora è ancora possibile produrre concetti? (signore, è possibile produrre un concetto di Africa?). L’orco ci tiene per mano chissà da quanto tempo, forse dall’inizio stesso della modernità, dal 1789, i cui effetti Mao, dopo una pausa di silenzio, non riesce ancora a vedere; l’orco lo vediamo in azione nel 33, quando venne inventata la televisione e Hitler venne eletto cancelliere del terzo Reich: l’orco, inteso come modernità totalitaria, è sempre stato tradotto e tradito, attraverso sconfitte militari per poi guadagnarsi la vittoria politica: così è stato con la rivoluzione francese e l’impero napoleonico, che con la loro sconfitta militare hanno trionfato in tutta Europa con l’idea di Repubblica, ma così è stato con il Nazismo, che con la sua sconfitta ha trionfato politicamente con  Postdam, dove gli alleati dichiararono di continuare a fare la pace così come hanno fatto la guerra.

 

 

Diventa così urgente problematica da affrontare quella di comprendere l’eventuale via che renda ancora possibile il comunicare, in un mondo appiattito nella ridondanza ossessiva di parole senza soggetto, di soggetti senza parola, di immagini e libri che trascorrono sotto i nostri occhi come una superficie opaca, a causa della quale riesce difficile il dialogo, il volto verso l’altro volto, il volgersi nell’altrimenti che essere, come direbbe Lévinas.

 

E qui entra in ballo la filosofia, che se vogliamo è forse il centro tematico dell’opera, l’essenza dell’ente, perché la filosofia non è altro che l’ente che si interroga su se stesso, e interrogandosi si apre alla altruità. E tuttavia non si ha una dialettica della conciliazione, tutt’altro, perché l’altrimenti che essere è sempre tale nel suo scarto, nella sua differenziazione inconclusa, intermittente come la vita, come lo scorrere di un fiume, e perciò tenta di vedere l’invisibile, anzi, non l’invisibile, che non c’è, ma il modo di vedere l’invisibile; è dunque la filosofia una sorta di approssimarsi, per vie indirette, striscianti, oblique, ma non convergenti e concentriche, così come il cagnolino che si accosta alla riva del fiume ma non lo attraversa.

 

 

Il film puntella in due tempi anche la storia frammentaria di due coppie. Entrambe le coppie non riescono a comunicare, mentre lo stesso cagnolino, lasciato dalla prima e ripreso dalla seconda coppia, diventa il riflesso concreto e vivente di una comunicazione possibile, perché l’animale con i suoi occhi rivolti all’esterno, senza alcuna focalizzazione verso un determinato, lascia lo spazio per il nulla, quel nulla in cui è possibile costruire qualcosa sulle macerie della modernità, in una sorta di urgenza dell’impossibile, ma rimanendo dentro la frammentarietà, per veicolarla nell’altruità, e lasciandosi alle spalle ogni utopia, che come tale fa parte dell’orco e del totalitarismo che non finisce. Tutto rimane come prima, niente è trasformato, perchè quel che conta è iniziare a pensare ondeggiando tra Natura e Metafora.

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