Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film
Selvaggio, spaesato e solitario come un cane randagio. Un animale ramingo, affacciato sulla sponda di un fiume, di un divenire dentro cui è pericoloso tuffarsi, e che è impossibile afferrare. Così è l’uomo che ha smarrito il senso dell’universalità. Un’antica figura in bianco e nero, piatta ed opaca, nella foresta multicolore e tridimensionale della vita. Un vecchio film, imprigionato nella cornice dello schermo, contro lo spettacolo della natura che si rinnova ovunque, senza regole né limiti. Il film di Jean-luc Godard è un lungo, meditato sospiro rivolto ad una realtà contemporanea che ha cercato le definizioni sbagliate. Ha scommesso sulle ideologie, sulla forza dei regimi autoritari e sui principi della democrazia, ed ha scoperto solo nuove forme di alienazione. L’uguaglianza e la condivisione dei valori sono risorse innate, che vanno cercate dentro di noi. Là fuori c’è solo un mondo in cui ci si perde dietro teorie bizzarre ed improbabili idolatrie, mentre la verità risiede nella carne che si lascia trasportare dall’istinto, dall’ispirazione, dal sogno. Due bambini vedono dei cani, disegnati nel cielo cosparso di nuvole. Li vedono nel blu, e anche nel bianco. L’evidenza si sposa con l’imprecisione, con l’ambiguità che riassume in sé tutte le possibilità. Il paradosso cessa di essere un problema intorno a cui affannarsi, se si riesce ad inglobarlo nella nostra percezione, e nel modo in cui la comunichiamo agli altri. Claude Monet insegnava che, nel punto della tela in cui lo sguardo non arriva, perché offuscato dalla nebbia, bisogna dipingere che non ci si vede.
Allo stesso modo, forse, occorre saper parlare per dire ciò che non si sa esprimere. Ad esempio, il fluire che non conosce sosta, in cui ci immergiamo e sul quale navighiamo, e che non ci porta da nessuna parte: un viaggio compiuto a bordo dei battelli del pittore Nicolas De Staël, sempre estranei, sempre fermi, sempre sfumati. Il loro viaggio è un’eterna partenza, che fa pensare ad un’emigrazione intrapresa senza un vero motivo, per effetto di un temporaneo abbaglio d’infinito. Si continua a scappare dall’Europa, anche se l’Europa non esiste più, almeno non più come un luogo multiforme e fecondamente inquieto, dove le culture creano conflitti ed i popoli fanno scoppiare le rivoluzioni. I confini, ormai, sono quelli che separano gli individui, e le diverse anime che albergano nello stesso corpo. Ci vuole un interprete anche per comprendere i propri pensieri. Solo le più primitive funzioni fisiologiche ci accomunano ai nostri simili. Il resto è un immenso chiacchiericcio che ha dimenticato le parole, per affidarsi ai mille clic della comunicazione digitale. Sullo sfondo rimangono i loro echi, ridotti a suoni con cui si può giocare, con quel “pollice che spinge” (pouce qui pousse), e che sostituisce alla sistematica lettura dei libri una frammentaria condivisione attraverso la rete. Il mondo dei concetti è stato fatto a pezzi, ed il processo è iniziato molti anni fa, quando qualcuno, in un campo di sterminio, ha esclamato Hier ist kein warum! (qui non c’è nessun perché). Ma Hitler non è stato il primo, a bandire i significati dalle menti della gente. Prima di lui sono venuti Machiavelli, Richelieu, Bismarck. Se riflessione è morta da tempo, l’azione sta languendo in un’insulsa agonia. Di fronte ad essa ognuno di noi è un semplice individuo, che organizza eventi. Non siamo più in grado di fare accadere le cose, ma solo di accoglierle inscenando il giusto umore, come quando ci rattristiamo per la pioggia che cade, o celebriamo in silenzio l’arrivo della prima neve. Dio, all’inizio dei tempi, ci aveva chiamati a dare un nome ad ogni creatura. Gli dei ci avevano insegnato ad amare l’acqua come fonte di nascite miracolose. Adesso à dieu possiamo rivolgere solo la nostalgica invocazione di chi, superata l’epoca dei miti, si ritrova senza patria. Rimpiangendo un langage che una volta si abbandonava all’irragionevole fantasia delle metafore, e che oggi, evolvendosi lontano dalle idee della filosofia e dalle suggestioni dell’arte, è divenuto meno eloquente di un abbaiare.
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