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Adieu au langage - Addio al linguaggio

Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film

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La recensione su Adieu au langage - Addio al linguaggio

di FilmTv Rivista
10 stelle

«Una donna sposata e un uomo libero si incontrano. Si amano, litigano; piovono i colpi. Un cane vaga tra città e campagna. Le stagioni passano. L’uomo e la donna si ritrovano. Il cane si ritrova tra loro. L’altro è nell’uno. L’uno è nell’altro. E sono tre persone. L’ex marito fa esplodere tutto. Un secondo film comincia. Uguale al primo. Eppure diverso. Dalla specie umana si passa alla metafora. Finirà con l’abbaiare di un cane. E con le urla di un neonato». Questa è la sinossi di Adieu au langage secondo Jean-Luc Godard. Uno che da sempre cerca l’aporia e il paradosso nello sguardo, per produrre un senso fuor di pregiudizio. Un cinema «non di quel che si vede, né di quel che non si vede. Ma del fatto che non si vede», citando le impressioni di Claude Monet. E allora Adieu au langage è composto da due capitoli, che si presentano due volte, un film sul numéro deux, ma per andare oltre alla dittatura della dialettica. Oltre la dicotomia tra «vivere e raccontare», tra natura e metafora, oltre il film sulla coppia, su un uomo e una donna, perché al cinema è sempre bastato un boy meets girl per esistere come racconto. Così in questo film che s’apre su pollici che esplorano gli smartphone, sul tatto usato per guardare in un mondo ridotto a immagine, in questo home movie in 3D, in questo ennesimo atto di guerrilla per e contro l’audiovisione, c’è un uomo che muore, lentamente, per tutta la durata del film, e c’è una donna che è lì, continua a ribadire, per dirgli no. «Una donna non può fare del male. Può ferirti, può ucciderti, ed è tutto», perché tra gli sfregi al linguaggio c’è anche la parodia, il simbolismo fossile e risibile di un linguaggio patriarcale, maschile, che s’appropria della natura, che è donna, irrazionale femminino. Un uomo e una donna, un Kammerspiel ridicolo tra linguaggio (che in Godard, da sempre, è in agonia) e natura. L’addio al linguaggio è così il dramma da camera di un incontro che si nega e si deride, la cronaca di uno scollamento, l’elegia della divisione. Due immagini, una sopra l’altra, perché è così che funziona la stereoscopia. Due immagini che si separano, che sono una contro l’altra, in un 3D che non le fonde in una sola, immergendo lo spettatore in un sogno, in un sonno ideologico, ma sceglie al contrario il risveglio irritando lo sguardo, cercando esasperatamente la separazione, il sovrapporsi strabico degli occhi, preferendo la confusione alla fusione, come SSHTOORRTY di Michael Snow o i lavori di sghemba stereoscopia di Ken Jacobs. E così, scratchando citazioni letterarie come un colto dj cialtrone, sbalzando lo spazio sonoro come un terrorista, con aggressioni uditive costantemente controsenso, ricorrendo a un digitale che sa essere deforme e pittorico, con immagini monche e irrelate, attenta sistematicamente alla nostra audiovisione, cerca i buchi neri, facendoci esperire, con tutti questi frammenti che si negano e rincorrono, la fallace logica della separazione con cui governiamo, percepiamo ed esistiamo nel mondo, un codice binario, una dicotomia, un’immagine, una copia, una riflessione dopo l’altra. Non dimentichiamolo: Adieu au langage è l’inno allo sguardo di un cane, privo di pretese. Un esercizio per l’occhio, e per il pensiero, contro quel che separa ciò che è continuo. Un film contro il numero due.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 46 del 2014

Autore: Giulio Sangiorgio

 

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