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Camille Claudel 1915

Regia di Bruno Dumont vedi scheda film

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La recensione su Camille Claudel 1915

di EightAndHalf
7 stelle

Il fratello di Camille Claudel, Paul, sostiene, nel 1915, in occasione di una sua visita nel manicomio dove è ricoverata la sorella, che tutte le cose che esistono sono lo specchio del complesso rapporto che hanno con le loro forme ideali nel cielo divino. In conseguenza di ciò, anche gli stessi rapporti fra le cose percepibili sono riflessi di quei rapporti "più complessi". Per questo un semplice campo/controcampo in un film di Dumont ha un afflato definibile divino.

Ogni volta che si penetra all'interno di un film di Bruno Dumont lo si fa con la dovuta circospezione, necessaria per leggere con attenzione la velenosità del suo montaggio. Dopo Hors Satan, che pure era stato definitivo in quella "caccia all'invisibile" che contraddistingue la prima fase della filmografia dumontiana, la sfida era rischiosa qualsiasi fosse il soggetto della pellicola, e in questo frangente Dumont è risultato quantomeno imprevedibile: per la prima volta in Camille Claudel 1915 affronta una storia vera, con un'importante star del cinema internazionale e illustrando luogo e tempo con una precisione calligrafica. Eppure il film, che ha tra l'altro lo scopo di rendere palpabile l'empatia e la follia, rimane sospeso in un plateau a-storico e a-cronologico, una piattezza evanescente cui consegue inevitabilmente l'assenza di una narrazione ben definita, nonostante l'estrema linearità del soggetto: Camille Claudel riceve la visita del fratello Paul. 

Il film non è costruito come un'attesa di questo incontro; è piuttosto la riflessione sul legame che c'è fra percezione e empatia, ed è anche il referente di quel senso di sovrannaturale che il solo guardare qualcosa ispira l'essere umano da sempre. Camille osserva i malati del manicomio sentendosi diversa da loro, più sana, ma combatte costantemente con il desiderio autolesionista di concedersi a quella follia che percepisce il mondo in un altro modo. Dumont rende questo desiderio di evanescenza della razionalità con un montaggio sempre velenosissimo e incalzante, in cui ogni immagine sembra tollerare sui suoi bordi il peso del suo creatore; più che del suo regista, di qualcosa di diegeticamente presente, osservante, ma invisibile, sia che si trovi fuoricampo che si trovi in campo. Spesso ci ritroviamo a osservare ciò che osserva Camille, ma spesso penetriamo in quella soggettiva e quella soggettiva risponde allo sguardo di Camille, pur scombinando le coordinate fisiche/spaziali che il campo iniziale ci aveva illustrato.

E così anche quando fa ingresso il fratello di Camille, Paul, che sembra figlio di suggestioni bressoniane (Diario di un curato di campagna) e pialatiane (Sous le soleil de Satan). Quello stesso montaggio che riguardava la tensione di Camille verso la follia  si riproduce con medesima velenosità nel montaggio che regola la ricerca di Paul, la sua percezione del sovrannaturale, nonostante non seguiamo pedantemente il suo punto di vista, ma un punto di vista esterno, invisibile, sempre pesante e presente, in grado di combattere la propria parzialità, la parzialità innata dell'immagine cinematografica, rivelando l'eterna infanzia di ciò che è divino e meraviglioso.

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