Regia di Bruno Dumont vedi scheda film
Se prendiamo il Cinema di Dumont, già rigoroso di suo, e lo trasferiamo in un convento-manicomio nella Provenza francese del 1915, la visione rischia di diventare un incubo claustrofobico, strizzato addosso ai quattro stracci di una bravissima Juliette Binoche. Cosa che, ovviamente, avviene qui, nel racconto mistico biografico del primo anno di "prigionia" della scultrice francese Camille Claudel, e del suo rapporto col fratello Paul, poeta e vero artefice della sua clausura, che l'accompagnerà fino alla morte, nel 1943. Dumont è fatto così, non si cambia, non cede nulla a un Cinema un po' più digeribile, e qui va in un cortocircuito cinematografico pseudo d'essai, di una pesantezza indicibile, marmorea, sacrale, funerea, terrea. Un'austerità che espande l'ora e mezza di visione in un'esperienza dolorosa di almeno quindici ore. Certo, la Binoche è brava, ma lo si sapeva, ma la materia trattata, per quanto interessante, è un incubo vivente, fra veri malati mentali, (scelta opinabile, ma in linea con il verismo di Dumont), e il volto quasi sempre lacrimoso di Juliette. Roba da martellarsi lo scroto, piuttosto. Va bene tutto, ma qui si esagera. Adieu.
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