Regia di Bruno Dumont vedi scheda film
Dio, o il vento.
Nel bene e nel male, Hors Satan ha rappresentato un punto imprescindibile nella filmografia di Bruno Dumont. È pressoché impossibile da parte di chiunque - detrattori, appassionati, spettatori casuali - non riconoscere la forza eversiva e primitiva di questo film. Hors Satan è stato per Dumont, se non il suo lavoro più “bello” – che, per chi scrive, resta Hadewijch -, sicuramente il risultato più rigoroso, potente e sincero: coraggiosamente spoglio fino all’essenza.
Qualcosa è cambiato, e qualcosa è rimasto, nel recente Camille Claudel. Persa in parte la totale libertà espressiva che aveva contraddistinto il lavoro precedente, Dumont deve confrontarsi con un biopic, avendo a disposizione un’attrice di fama internazionale, Juliette Binoche. Sono certamente questi degli argini abbastanza rigidi per un regista come Dumont, ma che paradossalmente fanno rischiare meno il regista francese: l’accoglienza più felice per quest’ultima opera è, di certo, un segnale. Su “Sentieri Selvaggi”, noti detrattori del regista, Emiliani scrive che l’opera di Dumont «non era mai stata così rigorosa». Anche Zappoli, stroncatore dell’opera omnia del regista, su “MyMovies” afferma che il film, nonostante qualche perplessità per l’uso di veri malati psichici, è comunque «un ritratto rigoroso e dolente». Certo, il film non accontenta tutti – su “EcoDelCinema” si scrive che «il film si regge unicamente sull’ottima performance della Binoche» -, ma è comune interessante notare un certo sdoganamento, già iniziato per altro con Hadewijch, nei confronti di questo regista così divisivo.
Eppure, Camille Claudel è un film che concede davvero poco – a parte, appunto, il “piacere” della grande interpretazione.
Qualcosa è rimasto: il silenzio, soprattutto. La totale assenza di commento sonoro, se si escludono i titoli di coda, permette a Dumont di concentrarsi nuovamente sul suono atavico della natura: il vento che scuote le foglie, diventa il vero leitmotiv del film, colmando l’assenza, il controcampo vuoto, l’attesa. Ed è nuovamente nel rapporto tra personaggi, che Dumont sviluppa il senso, volutamente sfuggente, del film. L’incontro tra Camille e suo fratello Paul, così atteso, non si rivela affatto risolutore, ma frustrante nella sua incompiutezza.
Qualcosa è cambiato: Dumont getta lo spettatore nell’universo filmico lasciandolo privo di protezioni – la scena del bagno con cui si apre il film è chiarificatrice. La macchina da presa, nonostante la struttura austera del film, si fa, in alcuni casi, problematicamente emotiva. Mai come in Camille Claudel, Dumont ha fatto un così largo uso di primi e primissimi piani, di zoom che ci avvicinano al volto, straziato e straziante, della Binoche. Respingere e avvicinare, contemporaneamente: una soluzione che conferisce il senso di schizofrenia aleggiante nel manicomio. Uno stato d’animo incerto e inquieto, che non fa parte solo di Camille, ma che si estende al film in sé: non è forse un caso, allora, che questo combaci esattamente col nome della sua protagonista.
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