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The Cutoff Man

Regia di Idan Hubel vedi scheda film

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La recensione su The Cutoff Man

di OGM
8 stelle

Venezia 2012 – Orizzonti. È lui il “bastardo” che toglie l’acqua alla gente. Arriva con i suoi arnesi e in un attimo i tubi degli utenti morosi sono scollegati dalla rete. Agisce restando impassibile, senza mostrare pietà, ed il tutto per undici miserabili shekel. Gabi non ha trovato altro impiego che quello, quando ha fatto la fila all’ufficio di collocamento. Sa bene che è un modo crudele di dare da mangiare a sua moglie e ai suoi due figli, ma è pur sempre un lavoro onesto, ed in fondo utile per la collettività: un pensiero consolatorio che, a dire il vero, forse nemmeno lo sfiora, mentre si sente diverso, respinto dalla società, per la quale lui ormai si è schierato dalla parte del nemico. Gabi serve il potere senza guadagnarci nulla più che una precaria possibilità di sopravvivere. In prossimità delle elezioni comunali i suoi interventi verranno prudentemente sospesi dalla municipalità, ignorando le gravi conseguenze per lui e per la sua famiglia. Quell’uomo taciturno e mansueto non conta proprio nulla, eppure è odiato da molti. Gli sbattono la porta in faccia quando si presenta nelle case a recapitare i solleciti di pagamento. Sfogano su di lui il loro rancore verso le autorità, ed hanno gioco facile, con quell’omino dall’aspetto così inoffensivo. Sentono di poterlo insultare, anatemizzare, ingannare e ricattare, dato che non è altro che l’ultima ruota del carro. È come la classica figura del lebbroso, che tutti evitano e nessuno rispetta. La sua impopolare mansione – insieme all’irrazionale senso di colpa che ne deriva - gli si è attaccata all’anima come una malattia, un morbo contagioso che ti induce a startene pudicamente in disparte anche quando gli altri non lo vedono, perché magari nemmeno ti guardano, e comunque non sanno nulla di te. Tu sai di averlo addosso e di essere un pericolo per gli altri, e tanto basta per chiuderti nell’isolamento. L’obiettivo del regista israeliano Idan Hubel inquadra una realtà tagliata in due, divisa tra Gabi ed il resto del mondo. L’individuo e la folla sono separati da una distanza che esiste solo nella prospettiva del primo; succede davanti ad un chiosco per strada, o sulle gradinate di uno stadio. La barriera si frappone anche tra padre e figlio, o tra due vecchi amici. Gabi occupa infatti una posizione scomoda, che può creare un certo imbarazzo nei rapporti umani, portando inopportunamente alla luce aspetti di cui vergognarsi. Boaz, il primogenito di Gabi, non sa proprio a che cosa aggrapparsi, se, oltre a non riuscire ad affermarsi nel gioco del calcio, si ritrova un genitore che sbarca il lunario in quel modo. Micha, il facoltoso padre di Eliran, che di Boaz è compagno di squadra, non può accettare che quel povero diavolo venga a ricordargli le sue bollette inevase. Gabi è un uomo solo che compie il proprio dovere nella costante certezza di danneggiare od offendere il prossimo. È costretto a punire, con la privazione di un bene primario, tante persone che sembrano così fragili ed innocenti. I poveri, in questa storia, lo sono davvero: donne anziane abbandonate o madri single con figli a carico. Sono la risposta emotivamente forte al silenzioso girovagare di Gabi, che, ovunque vada, sembra portarsi dietro la nicchia insonorizzata nella quale ama rintanarsi per non doversi confrontare con i suoi simili. Gabi parla pochissimo, anche quando lo aggrediscono verbalmente o fisicamente. Non si difende quasi mai, perché è un fatto assai penoso, che la necessità si debba giustificare. E poi non c’è granché da dire, quando si è tagliati fuori. Il titolo inglese riassume tutto il significato esistenziale del film, con l’illuminante ambivalenza del termine cutoff, che in questo caso designa, contemporaneamente, un’esclusione attiva e passiva, di chi recide e quindi viene a sua volta reciso. È un circolo vizioso che non concede scampo, e si manifesta nell’attesa infinita che la situazione cambi, ed i ruoli si invertano. Una speranza resa vana dalla perfezione di quella simmetria, insensibile ai capovolgimenti. Lo sfondo di Menatek Ha-Maim è uno spazio percorso in punta di piedi, con la paura di fare rumore. E la sua colonna sonora è un inno, sussurrato a fior di labbra, alla dignità che, pur se venata dal dubbio, è in grado, da sola, di riempire il desolante vuoto dell’emarginazione.

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