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La sposa promessa

Regia di Rama Burshtein, Yigal Bursztyn vedi scheda film

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La recensione su La sposa promessa

di OGM
8 stelle

Riempi il vuoto. L’imperativo è categorico. È pronunciato con l’impeto dell’amore materno, che è un vincolo talvolta disumano, quando è avvinghiato all’egoismo, alla tradizione matriarcale, all’idea primitiva di famiglia come circolo esclusivo nel quale il sangue è un legame che stritola gli affetti che vorrebbe preservare. In nome di questo principio, che nasce dalla viscere ma si consolida nelle regole sociali, la giovane Shira è chiamata a sacrificarsi: la madre le chiede di sposare il vedovo della sorella maggiore Esther, morta nel dare alla luce il piccolo Mordechai. La ragazza non vorrebbe, sente che non è quello l’uomo della sua vita, ma uno strano senso del dovere continua a pungolarla, a spingerla ad obbedire a quella strana imposizione che sembra quasi di origine divina. Shira vive in un ambiente di ebrei ortodossi, ma, per una volta, la religione non c’entra. Perlomeno, è del tutto incolpevole nel determinare una schiavitù che ha un’origine più profonda e sfuggente, radicata nelle pieghe di una coscienza che non è libera come dovrebbe, che non si rapporta direttamente con Dio, perché deve prima attraversare gli oscuri meandri delle relazioni fra uomini. È così che Shira finisce per volere, con la sua anima di figlia, quello che il suo cuore di donna e di credente non desidera. Non siamo abituati a vedere la fede rappresentata come una veste culturale che, pur prescrivendo costumi severi, pone in primo piano la spontaneità del sentimento: quella che il rabbino si aspetta di verificare in Shira, prima di concedere l’assenso al suo matrimonio. Il racconto è articolato e sottile come il cammino delle emozioni striscianti, che la protagonista reprime solo per poterle elaborare, amalgamare con la realtà circostante, e mettere alla prova davanti agli occhi del mondo. Shira è, inizialmente, una fanciulla solita a starsene in disparte, a seguire un’esistenza normale, cautamente guidata da altri, e nella quale non sono previste scelte difficili. È una diciottenne a cui i genitori hanno già procurato un potenziale fidanzato, che, a prima vista, le ispira simpatia, e che non avrebbe problemi a prendere come marito. Nessuno la sta mettendo sotto pressione, a cominciare dal padre, che non si mostra affatto ansioso di concludere la questione, e non ha alcuna fretta di indire le celebrazioni per il fidanzamento.  Il suo rispettoso distacco perdurerà anche dopo la perdita della figlia Esther: il dolore non cambierà la sua posizione, mentre sua moglie, al contrario, comincerà a riversare su Shira tutte le sue disperate aspettative di ritrovare la felicità perduta. Dentro di lei, la nonna prevarrà sulla madre, tanto che la donna sarà disposta a tutto, anche a calpestare i sogni e la dignità di Shira, pur di mantenere presso di sé il nipotino appena nato. Eppure in quel “mostro” si avverte un’infinita dolcezza, esattamente come nella sua vittima, che esprime la sua femminilità combattendo il pianto con una gioia che è un misto di indulgenza, di gratitudine e di affetto. Nella sua trasformazione da ragazzina innocente a figura venerabile, Shira trasporta con sé tutto il suo candore, che si fa solo più luminoso, ravvivato da una sofferenza che ne accentua la devozione. Un coraggio che freme d’insicurezza, e una fragilità che si sforza di affrontare i propri limiti: questa  è forse l’unica “santità” che, umanamente, è possibile adorare.

 

Fill the Void ha concorso, come rappresentante israeliano, al premio Oscar 2013 per il miglior film straniero. 

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