Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film
I fantasmi non muoiono mai, per loro stessa definizione. Se a noi europei tocca e toccherà ancora non si sa per quanto confrontarci con gli spettri del novecento, del nazismo, dell’antisemitismo, delle crudeltà assurde al superamento delle quali tentano di fondarsi (ancora e non si sa per quanto, con risultati tutto sommato mediocri) i nostri attuali princìpi e schemi di convivenza (lontanissimi dall’essere perfetti, naturalmente...), oltre oceano, ad Hollywood, ci si prodiga ancora nello spalmarsi balsamici unguenti sulle mostruose ferite ora dello sterminio dei nativi “indiani”, ora dello schiavismo che sarà più tardi, come nel caso di questo Oscar 2014 “12 Years a Slave”.
Giovi però ricordare come la memoria, anch’essa eterea e inconsistente quanto i fantasmi a cui rimanda, può essere esercitata in diverse maniere. E se in ambito europeo la tragedia del novecento è stata resa, limitandoci a tempi ed opere vicini, anche con film come “Train de Vie”, “Adam Resurrected”, o “Inglorious Basterds” (americani questi ultimi due , in omaggio, alla glocalizzazione che prima o poi finirà per miscelare ogni fantasmatica memoria...), dopo aver visto questo film non si può non essere tentati di riandare (ritornare), con struggente nostalgia, incontro al genio di Quentin Tarantino e al suo recente “Django Unchained”: laddove il genio tarantiniano disegna con i colori vivaci e intelligenti del grande artista la tela buia dell’America schiavista, la non-genialità ordinaria e mestierante di un bravo ed onesto non-genio alla Clint Eastwood come McQueen (che pure ha saputo brillare laddove ha voluto astenersi dalle disamine storiografiche come nel caso del recente “Shame”, un po’ come Eastwood è in fondo sopportabile finché non si butta a raccontare Mandela e si limita agli algidi amanti di Madison County) sa usare solo “Il Colore Nero” (per parafrasare quello “Viola” di Spielberg che non per niente data oramai 30 anni fa) per inscenare una storia i cui i 12 anni di durata passano con la stessa indifferenza e superficialità con cui si cancellano in dieci minuti gli indirizzi di posta elettronica temporanei.
“10 Minutes a Slave” sarebbero bastati per raccontare la storia in cui il nero Pinocchio, ingannato dal Gatto e la Volpe, (tra)passa dal mondo libero attraverso le piantagioni di canne da zucchero e cotone, tra le fruste e le corde per gli impiccati, tra i bianchi mezzi buoni, quelli tutti cattivi, le bianche signore sui bianchi terrazzi che li osservano tutti quanti (perlopiù silenti, a tratti avvelenate), tra il dolore della sua stessa razza che, intenta a costruire bambole di paglia, non si capacita di essere stata strappata ai figli o di non poter anelare ad un pezzo di sapone, tra caporaletti particolarmente crudeli accessoriati con cappellino all’Arancia Meccanica o i salvatori barbuti alla Lincoln (Brad Pitt, per quel che mi riguarda, è il benvenuto sempre e comunque!), per ritornare, allagato da un fiume di lacrime sufficiente a bollire il più grasso dei tacchini del Tanksgiving, alla sua legittima, già libera famiglia, direttamente dotato di nuovi nipotini ed extra-nuore a titolo compensativo e risarcitorio di un oscuro senso di colpa, quest’ultimo tutto, indiscutibilmente bianco.
Fatte salve le buone prestazioni attoriali e qualche scena indiscutibilmente toccante (una per tutte: quella in cui Solomon-Platt/Chiwetel Ejiofor riesce finalmente ad unirsi al canto degli altri schiavi, un Fassbender superlativo in ogni primo piano), un film tutto sommato deludente, confusionario e confondente nella costruzione temporale, scontato e già visto in molte altre occasioni.
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