Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film
Modestissimo film con cui viene ridimensionata la statura autoriale di Steve McQueen. Alla prima fatale trasferta hollywoodiana, l'autore degli straordinari "Hunger" e "Shame" si arena nelle secche del drammone impegnato in una sacrosanta causa. Il regista britannico non riesce in alcun modo ad applicare le sue teorie sullo sguardo e sulla rappresentazione, ereditate dall'imprescindibile esperienza di video-artista, ad una tematica forte come lo schiavismo negli States dell'800. Se infatti "Hunger" sorprendeva ed affascinava, invitando alla riflessione sia politica sia estetica, proprio per quella capacità inusuale di filmare la repressione e la resistenza secondo una peculiare forma di straniamento (la struttura tripartita; la dialettica fra il linguaggio del corpo e quello verbale; la messa in scena della violenza in cui la stilizzazione della forma veniva sporcata e corrotta da una barbarie umana mai elusa o censurata), e se "Shame" girava in tondo, riproducendo il circolo vizioso di una schiavitù tutta mentale e frustrando l'idea del piacere attraverso un montaggio ellittico, "12 anni schiavo" si attiene ad una progressione drammaturgica decisamente classica. Non che lo stile sia sciatto, ovviamente: SMQ ci sa fare con la mdp e alcune sue cifre stilistiche (il carrello laterale, il piano-sequenza "imprigionante", certi occasionali decadrage) vengono ribadite. Il problema è che tali espedienti formali non acquistano quasi mai un valore espressivo pregnante, ossia: non si fanno mai "discorso", non invitano lo spettatore ad interrogarsi sul senso di ciò che sta vedendo (come invece negli stimolanti "Hunger" e "Shame"), ma restano semplicemente modi eleganti per filmare una sequenza. A dire il vero, se non fosse per i credits, quasi si faticherebbe a credere che questo film sia stato diretto da SMQ. Capacità mimetica? Può darsi, ma insomma...molto spesso capita semplicemente che un autore non abbia saputo imprimere la sua estetica ad una materia narrativa estranea (i libro dello stesso Northup, lo script di Ridley) e si sia accontentato di fare il compitino. "Hunger", con le sue asimmetrie, la sua complessa essenzialità, la capacità contemporanea di sintesi ed analisi, la sua ambigua laconicità è lontano anni luce. Paradossalmente, "12 anni schiavo" pare invece condividere più cose con "Shame" per via della ricorsività dell'incubo-schiavutù: ma in realtà, se in "Shame" la struttura ripetitiva, in loop, era necessaria ed espressiva, qui invece è solo il frutto di una sceneggiatura drammaturgicamente fiacca e confusa, nonchè di una regia impotente, incapace di scegliere una strada, di dare risalto ad un tema piuttosto che un altro, di imporre il suo "sguardo". E allora ecco che SMQ non riesce a fare altro che prestare il fianco ai più corrivi standard hollywoodiani, dall'invadenza del soundtrack (pessimo, a parte i canti gospel), alle sottolineature di flashback e inserti diegetici, giù fino agli spiegoni retorici-manichei. Sia chiaro: il manicheismo, nel cinema post-moderno, non è necessariamente un male, anzi: spesso è il presupposto per una riflessione e un ribaltamento delle certezze spettatoriali (vedi Lynch e Tarantino). E poi è fuori discussione che in un contesto schiavista come quello degli USA meridionali di metà 800, i bianchi erano i cattivi e i neri i buoni (inutile discutere su questo: trattavano i "negri" un po' come i nazisti con gli ebrei, con buona pace dei negazionisti). Il problema è che da questo schema non nasce alcuna ambiguità, alcuna complessità, alcuno spiazzamento, alcuno sguardo in qualche modo "alternativo": è proprio la regia di SMQ a tirarsi indietro, a non fare quel passo necessario ad elevare una tipica indignata storia di ordinari soprusi a terreno di riflessioni su problemi di ordine teorico ed assoluto. Ad esempio, il masochismo che può nascere in chi subisce le torture; il paradosso di una libertà da ottenere col compromesso; la sevizia come perversa "performance"; il ruolo sfaccettato della donna (oggetto ora di desiderio ora di violenza, la nera; ora succube ora dispotica, la bianca); il piacere sessuale e i suoi rapporti con la violenza; il Dio vendicativo (tirato fuori davvero a sproposito!); la condanna/salvezza della cultura e dell'arte (la lettera, il violino): queste ed altre tematiche, così come il dialogo implicito con il presente degli USA obamiani, vengono lambite, ma pretestuosamente, senza che alcuna di esse diventi davvero un possibile faro tematico. Uno dei pochi momenti personali del film è la lungua inquadratura in cui Solomon rimane con la corda al collo ed è costretto a stare in punta di piedi nel fango per non rimanere strangolato: una scena ad alto potenziale metaforico ed espressivo, ma viziata da un inaccettabile falla di sceneggiatura (il tipo con la pistola che ha scacciato gli aguzzini, se ci teneva alla sopravvivenza di Solomon, non poteva pensarci lui a liberarlo?!?!). E anche il piano-sequenza delle frustate alla giovane Patsy non testimonia, come avrebbe forse voluto, l'ineluttabilità della schiavitù o la costrizione dello sguardo (come in un "Funny Games" di Haneke, ad esempio), ma è semplicemente una scena di radicale ed insotenibile violenza, girata meglio della media, ma inerte, gratuita, buona solo a confermare l'assunto della storia e a suscitare ancor più rabbia e indignazione (chi di voi non avrebbe sperato che Solomon indirizzare qualcuna delle sue frustate a quell'aberrante rifiuto di donna che è la moglie di Fassbinder?). Insomma, un'occasione mancata: un anno dopo Tarantino, anche SMQ fallisce nel faccia a faccia con una della grandi vergogne della Storia a stelle e strisce.
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