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12 anni schiavo

Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film

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La recensione su 12 anni schiavo

di scapigliato
8 stelle

Un’immagine fissa di un gruppo di sporchi negri. Campo totale. Tempo di lettura superiore alla durata dell’inquadratura. Silenzio. Inizia con una fotografia vivente il film di Steve McQueen, che poteva essere benissimo un dagherrotipo d’epoca o una litografia. La sostanza non sarebbe cambiata. Sempre facce inespressive di sporchi negri sarebbero state, terrorizzati e sedati dall’apatia e dalla rassegnazione. Più avanti il film ci regalerà altre inquadrature come questa, a mostrarci il corpo nero degli schiavi venduti come delle bestie, come se fossero manichini, suppellettili, addobbi, ombre senza valore umano. Ma la teatralità della composizione scenica, o la posa fotografica, non si limita a questo in 12 Anni Schiavo, ne è la linea estetica dominante. La classicità moderna del regista si risolve infatti, fin dai suoi titoli precedenti, nella ricostruzione moderna di una classica estetica pulita, minimale, intuitiva e lineare, dove al centro di una scena, con la sua art decoration, gli oggetti, gli spazi, i vincoli e i caratteri ambientali c’è l’attore, l’uomo, il corpo.

La feroce critica antirazzista non passa dalla moderazione del punto di vista borghese che salverebbe gli aristocratici illuminati, come il Padron Ford di Cumberbach, per condannare gli spietati schiavisti preda di una follia che è più patologia che altro, come il bellissimo e laido Padron Epps di Michael Fassbender o l’impotente e quindi frustrato e quindi violento e fascistoide Tebeats interpretato da Paul Dano che avrebbe potuto fare molto meglio se il personaggio fosse stato scritto diversamente. Il rischio sarebbe stato di aver salvato il salvabile, condannando gli uni e graziando gli altri, facendo solo quadrato intorno alla classe sociale che ha fondato gli Stati Uniti, nella quale sguazzava uno schiavista silenzioso come Abraham Lincoln, assurto poi a mito nazionale. Steve McQueen lo sa bene ed evita la manichee divisione tra buoni e cattivi – eccetto per il mastro carpentiere interpretato con la solita scorza dura e la posa scimmiesca di Brad Pitt, che è più un deus ex machina politicamente corretto che cambia il destino dello schiavo Solomon in una scena che stride con il resto della pellicola sembrando più uno spot buonista che il buon Brad, anche produttore del film, voleva per sé.

Il regista preferisce così, con carota e bastone, descrivere la debolezza dell’uomo davanti ai grandi valori quando in gioco c’è il potere, la dignità, il denaro che regge un intero mondo sociale. Gli americani, difatti, nell’abolire la schiavitù, annientavano la differenza di razza, ma creavano ed esaltavano la differenza di classe. Il denaro, non il colore della pelle, sarebbe stato il marchio con il quale dividere la società nascente. L’uomo libero Solomon Northup, sebbene negro, nello Stato di New York vive agiatamente, ha una famiglia rispettabile e frequenta buoni salotti, ma quando viene ingannato e venduto come schiavo da Washington fino in Louisiana è solo un negro senza diritti, espropriato di ogni bene materiale, derubato pure della famiglia e spersonalizzato nel profondo intimo, cambiando obbligatoriamente di nome e di storia personale. Il razzismo, per McQueen, non è più la pelle, ma la “roba”.

E continuando a leggere i segni del suo cinema, la “roba” per eccellenza, il valore più grande che abbiamo, che possediamo e con cui possiamo essere ricattati, è il nostro corpo. Ecco che le sadiche torture, le insostenibili umiliazioni, le indescrivibili frustate rese terribilmente realistiche dallo sguardo fintamente distaccato di McQueen – l’Hemingway del cinema di oggi? – coinvolgono il corpo schiavo del negro oggetto di piacere e sofferenza nella dialettica tutta americana dell’estasi dell’oro, della brama di potere e di dominio data dalla ricchezza, per esteso leggersi possesso. Padron Epps possiede i corpi dei suoi schiavi e possiede il corpo della bella Patsey ogni notte che vuole; e possiede il corpo, l’anima e la storia del negro Platt, il nome da schiavo dell’uomo libero Solomon Northup, così come possiede i cavalli, i cani e i muli, così come possiede la sua casa, le sue terre, il suo cotone e sua moglie, ma non possiede la virilità che lo farebbe un uomo vero. La tensione sessuale che gli scatena deliri e febbri ad occhi aperti, che lo riducono ad un malato che deambula sotto il sole cocente, sfatto e sbracato, con ridicolo fazzolettino legato in testa a renderlo una parodia della nobiltà southern, è la tensione sessuale scatenata dalla devirilizzazione di un uomo agiato che non impugna la vanga e il falcetto, ma lascia che siano altri uomini, veri uomini, ad impugnarli. L’unica cosa che può fare un uomo devirilizzato, ingentilito dallo status sociale, è prolungare la mancata virilità con la frusta e con la punizione corporale. Il corpo, il sangue, le viscere, la pelle, gli arti, i genitali, tutto è oggetto dell’attenzione patologica dell’immenso Fassbender che fa rivivere nel suo Padron Epps tutta la follia di un popolo che fin dal suo insediamento in terra americana ha impostato la società sulle differenze e sui rapporti di forza. McQueen non manda a dire come sia malato il corpo americano.

Le poche scene di nudo integrale e le rabbiose e animalesche copule notturne vengono ugualmente descritte dal regista con la compostezza di uno sguardo scientifico, fintamente distaccato, partecipe quel poco per non sterilizzare la coscienza del pubblico spettatore, rendendolo così consapevole del dramma umano, sociale e corporale di un’intera razza. Fanno il paio gli sguardi lascivi e l’evidente invidia sessuale degli uomini bianchi davanti al corpo negro, colpevole di essere perfetto ai loro occhi come mai lo saranno i loro sfatti e flaccidi corpi ariani. Un’inferiorità del maschio bianco occidentale che fin dagli inizi del secolo si era abbattuta con ferocia sulle donne e in seguito sulle razze credute inferiori. Ma l’inferiorità è negli occhi di chi guarda e giudica. E ancora una volta, lo sguardo implacabile di Steve McQueen ci mette davanti alla “nuda” verità, alla crudezza del dato reale e storico. Mette in ridicolo il mondo WASP, e si prende gioco degli abolizionisti e della borghesia illuminata dipingendoli con la stessa ambiguità che ha il commerciante davanti ai suoi prodotti, il fattore davanti ai suoi maiali.

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