Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film
Nel primo, Hunger (2008), la prigione era reale, carnale, senza vie d’uscita. Nel secondo, Shame (2011) la vera prigione era il corpo di Michael Fassbender. In questo terzo e strepitoso lungometraggio, uno dei più interessanti cineasti viventi, Steve McQueen, torna a parlarci delle sue prigioni. In questo, raccontate per mezzo dello sguardo di un uomo che, pur conoscendo la libertà, ha fatto anche l’esperienza dell’ingiustizia della schiavitù. Tratto dall’omonima autobiografia di Solomon Northup, un best seller già dall’anno di pubblicazione, nel 1853, il film di McQueen è già considerato un classico. La grandissima capacità narrativa del regista classe ‘69, insieme alla messa in scena, quasi perfetta, fanno di 12 anni schiavo un film senza tempo: attualissimo, pur raccontando gli anni che hanno preceduto la guerra civile americana. In questi anni, Solomon Northup, un nero nato libero nel Nord dello stato di New York, é rapito e venduto come schiavo. Misurandosi tutti i giorni con la più feroce crudeltà ma anche con gesti di inaspettata gentilezza, Solomon si sforza di sopravvivere senza perdere la sua dignità. Nel dodicesimo anno della sua odissea, l’incontro con un abolizionista canadese cambierà per sempre la sua vita.
L’ossessione dei corpi, come sempre nel cinema del cineasta londinese, la fanno da padroni: ammassati e ingombranti, sanguinanti e sfiniti. Sono loro i protagonisti e l’oggetto su cui si incarnano i mali del mondo, sia quando si è liberi, tantomeno quando si è privati del respiro e del diritto all’esistenza. Basti solo ricordare le riprese, e la loro interminabile durata, della tentata impiccagione, fra l’altro vista da ogni angolo di quel cimitero di sofferenze all’aperto, con il passaggio, e per mezzo di vari campi, di tutti quelli che intorno vivono, a loro modo, la libertà: sono immagini da antologia. Oppure il terribile pianosequenza delle frustate, durante il quale, da spettatori, si ha la sensazione di stare dalla parte della vittima: manca il respiro, si avverte la sensazione fisica di toccarsi e scoprirsi piagati.
Affidandosi ad un cast in stato di grazia, alla superba interpretazione di Chiwetel Ejiofor, oltre al mai disprezzabile Paul Giamatti, il bravo Brad Pitt, anche produttore del film, McQueen, ancora una volta, costruisce un film discusso e che fa discutere. E non solo perché arriva, anche questo, dopo una serie di film che, negli ultimi due anni, hanno riportato il cinema a raccontare l’impegno civile, da Django Unchained, a Lincoln, passando anche per il recente The Butler –Un maggiordomo alla Casa Bianca. Sarà per il centocinquantesimo anniversario dell’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti, insieme al cinquantesimo della Marcia per i diritti civili su Washington culminata nel celebre discorso conclusivo di Martin Luther King al Lincoln Memorial, quello sul “sogno”, insieme ad un mondo in cui le diversità, di ogni genere, e a qualsiasi latitudine, ancora sono un problema, ma è un bene che almeno il cinema ci aiuti a riflettere su tale urgenza. Il regista e video artista britannico, per la prima volta non scrive la sceneggiatura, limitandosi a curarla visivamente. Prediligendo l’orizzontalità dello sguardo, più che la verticalità delle vite in carne ed ossa, che presuppongono lo stare in piedi, perché “sopravvivere significa avere la testa alta”, come si afferma nel film. Tutto è messo a disposizione del tormento di chi vive nell’oblio, a causa della mancanza della libertà. L’uso di una fotografia che predilige le zone d’ombra, contornando, spesso, durante la visione, i corpi che, pur essendo molto carnali, si riducono a sagome contornate dall’alone di una luce impercettibile. Corpi abbattuti come alberi. Il canto, la musica, l’appartenenza alle voci unite in un coro, qui, diventano la giusta dimensione dell’appartenenza ad un’umanità che, più di tutto, esprime e condivide inquietudine. Di contro, ad azzittire e ad assordare, ci pensa l’insistenza della violenza, a cui ci ha un bel po’ abituati McQuenn, con sadismo e su corpi inermi, che provocano nello spettatore un risveglio da quel torpore collettivo, che ci fa rimuovere il passato, rendendo certi razzismi ancora presenti. Ossessivamente personificati, come in tutti gli altri film dello stesso autore, dall’immenso Michael Fassbender.
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