Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film
Steve McQueen allarga l'orizzonte (il suo) mantenendo uno sguardo lucido e potente.
Inevitabilmente, una storia straordinaria che è un pezzo significativo della Storia dell'umanità (e della disumanità), richiede un avvicinamento a certi canoni (e gusti) della cinematografia tradizionale, laddove risulterebbe carente se non addirittura impudente un approccio unicamente "virtuosistico", da geniale montatore di videoarte quale è l'autore di Hunger e Shame.
Avvicinamento che però non significa affatto cieca opportunistica contiguità - formale, strutturale, didattica, morale - alla classicità hollywoodiana. Ci sono segnali di cedimento in alcuni passaggi ed in generale nell'evoluzione del racconto, è innegabile, così come è senz'altro vero che la conclusione abbraccia un'enfasi un po' fuori luogo e forse deviante, ma si tratta in buona sostanza (ed in larga parte) di riflussi fisiologici, di accorgimenti strumentali.
Inoltre, probabilmente l'opera in sé non aggiunge poi granché alla sterminata, nota letteratura "schiavista" (di cui altrettanto noti ed appartenenti all'immaginario collettivo sono gli aberranti effetti e conseguenti descrizioni "forti"), eppure non c'è nulla in 12 anni schiavo che induca a dubitare sulla sua sincerità e della sua "necessarietà".
Tutto, invece, lascia pensare - ed è riconducibile - al linguaggio "mcqueeniano", alla sua visione globale che trova espressione (ed espansione) tematica nella suggestiva configurazione visiva e viceversa.
Un organismo complesso e stratificato, in cui suoni (profondi, talora appena percettibili eppure gravi, angosciosi e angoscianti, oppure stridenti come le note festanti del violino che accompagnano scene terribili) e immagini (che siano quieti quadri naturalistici, inesorabili primi piani o protratte crudelmente) e colori (magnifici, dolci inerti testimoni) si corrispondono in una penetrante armonia sensariale per assonanze e dissonanze, come coordinate simboliche ed essenziali che definiscono una prospettiva in movimento che dialoga, (si) espone, esplica, illustra. Un perfetto contrappunto dinamico alla statica schematicità della sceneggiatura (peraltro di discreto valore).
Emblematica la lunga sequenza dell'impiccagione: un paio di righe diventano potente brano di storia e cronaca grazie al mezzo cinematografico accorso in tutta la sua grandiosità (l'illuminazione che scandisce lo scorrere del tempo, i rumori di sottofondo che attestano il "normale" fluire della quotidinaità, gli spostamenti progressivi della mdp che riprendono - e fanno "vivere" - da molteplici angolazioni soggetto, sfondo, particolari, contesto e contenuti).
Il regista inglese sceglie di plasmare la materia a disposizione aggiungendo (la comunicabilità degli elementi filmici) e sottraendo (la retorica del tema, la predominanza della narrazione che pure ha il giusto, organico rilievo), per garantire una complessità concettuale e realizzativa che prevede, identifica e teorizza - circoscrive - principi basilari ma estremi, semplici e poderosi al contempo.
Il motivo che risuona - amplificato dalla portata degli eventi, dalla scansione temporale (l'uso dei flashback, l'inudibile/illeggibile scorrere degli anni), che determina una atipica sospensione in un in(de)finito presente (la sensazione che prova Solomon imprigionato in un'eterna spersonalizzazione), frutto di una scelta precisa e voluta (altro che didascalismo!), così come dalle azioni delle figure in campo - è la diversità tra vivere e sopravvivere. La possibilità di scegliere, di rivelare la propria eccezionalità, di rivendicare la propria identità di uomo.
C'è un momento in cui Solomon perde la speranza, cioè quando, sospettato di aver scritto una lettera da destinare ai propri cari (inammissibile: gli schiavi che "devono" saper leggere e scrivere), non può far altro che bruciarla. Ebbene, per tornare a quanto scritto sopra, McQueen passa dal volto disperato (e rassegnato, e svuotato) del protagonista a riprendere il fuoco che avvolge, consuma, cancella la carta.
Lentamente, inesorabilmente, le fiamme inghiottono ogni illusione, spegnendosi nel buio totale della notte che inghiotte l'identità dello schiavo.
Ma non si tratta di un assolo, di una compiaciuta glorificazione dell'individuo: tutti i personaggi in scena sono altrettanto importanti per definire un'epoca, un sistema, l'insieme complesso umano.
I padroni predicano, i servi ascoltano.
Questa è l'apparenza, un punto di partenza, se vogliamo. Andando oltre la rappresentazione schematica e bidimensionale della superficie, 12 anni schiavo (psico)analizza personalità e azioni, scelte e comportamenti, capacità ed evoluzioni/involuzioni, cercando di riprodurre un quadro credibile (riuscendoci quasi del tutto). Esemplare lo schiavista interpretato da Fassbender: un lavoro introspettivo (dello sceneggiatore, del regista, dello straordinario attore) encomiabile, una psicologia composita non banalizzata dalle solite "imprese" di sadismo fini a se stesse (a tal proposito, va evidenzianto che non c'è un'inquadratura, una scena, un raccordo, che suggerisca - o peggio, imponga - un abbandono facile e ricattatorio al pietismo, alla lacrima scontata, al pathos indotto unicamente con risaputi mezzucci qui senz'altro non riscontrabili).
Non è un caso isolato, ovviamente, a partire dallo stesso protagonista (Chiwetel Ejiofor: occhi che "parlano" e paralizzano), fino a tutti gli altri (non nella stessa maniera e profondità: andava sfruttato meglio il ruolo della moglie di Fassbender, mentre stona, e non poco, Brad Pitt che pare rivenire direttamente da Vento di passioni).
Si scriveva, all'inizio, di cedimenti: nella seconda parte, e fino alla conclusione, il film, dovendo seguire un preciso percorso e tirare le fila, disperde forza, vigoria, intensità, facendo calare l'eloquenza del linguaggio e della forma, con dilungamenti evitabili ma probabilmente giustificabili con il coinvolgimento di McQueen.
Coinvolgimento che è, in definitiva, anche quello del pubblico: al netto di tutto ciò che possa essere - a ragione - ritenuto lacunoso, o inefficace, o poco riuscito, 12 anni schiavo resta un'opera importante, da difendere e diffondere, che non potrà che crescere nel tempo, ed ulteriore conferma del talento del suo regista.
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