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12 anni schiavo

Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film

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La recensione su 12 anni schiavo

di BobtheHeat
7 stelle

Il tema della rappresentazione della schiavitù è ancora fortemente sentito in USA : le ferite di quella piaga sociale sono evidentemente ancora ben visibili ed aperte. 

Non a caso di recente è stato portato più volte sullo schermo. Nel 2012 Steven Spielberg (con il legnoso ma certamente autorevole “Lincoln”) e Quentin Tarantino (con il fiammeggiante ed irriverente “Django Unchained”) lo hanno riproposto, chiaramente ognuno con il proprio tipico modo di fare Cinema. E a questi si potrebbe aggiungere per certi versi anche “The Butler” (che però non ho volutamente visto).

Il regista inglese Steve McQueen, pregevole Autore di nicchia (suoi sono gli intensi e discussi “Hunger” e  “Shame”, entrambi con un immenso Fassbender) per il Suo debutto in quel di Hollywood, (rendiamo giusto tributo a tal proposito a Brad Pitt: perchè senza il “suo zampino” come produttore, sarebbe stata dura per McQueen riuscire “a fare" e poi  "distribuire” il film) ha deciso di proseguire su questa strada.

E lo ha fatto raccontando una storia che ha dell’incredibile (e qualcuno immagino non ci crederà: pazienza): quella autobiografica di Solomon Northup, un uomo di colore,  nato libero nel nord dello stato di New York, musicista, sposato e padre di due figli, che  viene rapito e strappato violentemente dalla sua vita quotidiana, per essere venduto e brutalmente schiavizzato. ("tu non sei un uomo libero, tu sei un fuggitivo della Georgia", tu non sei un uomo libero").

Una storia universale dunque che aggiunge un altro doloroso tassello alla tragica mappa dello schiavismo nel sud degli Stati Uniti del XIX Secolo.

“12 anni schiavo” è un film a tratti molto duro, straziante e coinvolgente, specie nella sua prima parte, con il quale Steve McQueen ci ricorda l’importanza ed il valore di una libertà che oggi, molti di noi, finiscono per dare per scontata.

Il regista evita abilmente facili pietismi, non cade troppo nel manicheismo (basta confrantare il film con "Il Colore viola") mostra senza indugio alcuno la brutalità delle punizioni e delle torture.

Ci mette di fronte più volte ad esperienze ai limiti della sopportazione (il lungo piano sequenza dell'impiccagione è a dir poco soffocante) che generano un necessario e voluto disagio.  Ma a colpire stomaco e cuore dello spettatore sono anche le violenze psicologiche, che ogni minuto gravitano minacciose sulla testa del protagonista: in molti momenti, l’atrocità “dell’uomo bianco” sembra veramente non finire mai.

Pur all’interno di un Cinema più convenzionale Steve McQueen dunque non rinuncia troppo alla Sua sensibilità e alla Sua cifra stilistica. Viene a mancare certo la sperimentazione filmica dei suoi film precedenti.Ma sotto questo aspetto, non poteva forse che essere così: ai fini del risultato da perseguire, assai più funzionale una narrazione più classica, semplice, seppur non lineare.

(Accade in questo film un po’ quello che avvenne ai tempi in cui Gus Van Sant girò “Milk”:  e anche questa volta, è lecito che qualcuno non apprezzi questo approccio più tradizionale e che taluni lo vedano come un segnale di debolezza e di mancanza di personalità).

“12 anni schiavo” è un film di nevrosi, di corpi e di sguardi che si sovrappongono, in cui il regista Steve McQueen pone al centro, ancora una volta, un protagonista “intrappolato” e senza apparenti vie d’uscita. Ancora oppressione e isolamento, come già accadeva, letteralmente, in “Hunger” (nel quale Bobby Sands,  grazie all’inaudita determinazione di spirito data dai suoi ideali, trovava la forza di opporsi e di non cedere) o metaforicamente in “Shame” (con il protagonista, prigioniero della sua ossessione per il sesso e votato quasi all'autodistruzione).

“12 anni schiavo” conferma la capacità di Steve McQueen di coinvolgere emotivamente lo spettatore, di saper tratteggiare i personaggi, di scavare ed andare sino in fondo alle loro ossessioni, un fatto come sappiamo sempre inusuale nei film prodotti ad Hollywood.

Non tutto funziona però, perchè ad una prima parte potente ne segue un'altra meno riuscita, più lenta e meno emozionante: in pratica dopo circa venti minuti dell'entrata in scena di Fassbender, il film si dilunga, eccede in in­serti Malickiani sulla natura della Louisiana, diventa meno scorrevole e più ripetitivo ("la frusta" finisce per esser sin troppo protagonista).

Certi passaggi (esempio il rapporto tra Fassbender e sua moglie) sono poi mal sviluppati, o comunque contraddittori. (Come, prima dici alla moglie "non tì azzadare più a colpire "la mia schiava" e poi, dopo, finisci per assecondarla?) .

E anche i momenti che dovrebbero mostrare l'ossessione erotica dI Fassbendere verso la giovane schiava ("campionessa"nella raccolta di cotone),interpretata dall' esile Lupita Nyong’o, non sono intensi come avrebbero potuto: è come se il regista si fosse fermato a "metà strada", non avesse avuto la forza di spingersi oltre un certo punto.

Se il risultato finale di "12 anni schiavo" arriva ad essere comunque di buona levatura, molto lo si deve alla forza del comparto tecnico (la direzione della fotografia, che gioca tra luci e ombre, è  affidata ancora una volta al fedele Sean Bobbitt: mentre le delicate ed armoniose musiche, affatto pompose e retoriche, a dispetto di quanto ci si poteva aspettare, sono del Maestro Hans Zimmer, in gran forma) e alla costruzione prima e all'ottima prova poi, di buona parte del cast.

Chiwetel Ejiofor nel ruolo di Solomon, rappresentazione di uomo che con indistruttibile tenacia vuole tornare a vivere (nella libertà), è magnifico. Il suo volto, i suoi occhi, non si dimenticano. Ed è bello vedere come la sua odissea finisca non per mano di una violenta (già vista altrove) ribellione ma grazie alla sua perseveranza, alla sua intelligenza e cultura. 

 Benedict Cumberbatch è bravissimo nell'interpretare il ruolo del primo mite padrone di Solomon che si contrappone, di fatto salvandolo, al suo folle e violento sgherro,  un Paul Dano al solito superlativo. 

Fassbender in quello dello spietato e psicotico “Padrone”, è più che convincente nel mostrare paura e soprusi dello schiavismo: ma come detto, il soggetto un po' lo penalizza. 

Il personaggio "fiabesco" interpretato da Brad Pitt, che predica l’abolizionismo, merita un discorso a parte: gioca un ruolo certamente fondamentale per il "romanzesco" esito (del frettoloso) finale del film ma la sua credibilità mette a dura prova anche lo spettatore meglio disposto. Al limite era meglio utilizzare Giamatti in quella parte.

 E' il “prezzo” che il regista ha dovuto pagare alla "macchina hollywoodiana”.  Eh sì, lo sappiamo: difficile per un Autore Europeo fare un film esattamente "come si vuole" in quel di Hollywood, specialmente la prima volta ! Ma se si accetta qualche compromesso, alla fine, arrivano molte nominations (troppe) e meritata notorietà. Voto:  7

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