Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film
La forza e il fascino dello shock, di quello però sottile, formale, sottilmente implicito, calato improvvisamente e senza reali sbalzi in mezzo a varie sequenze magari particolarmente concitate e svelte, e che si vede composto da diversi immensi secondi in cui tutto cade nel silenzio e ci viene ricordato che stiamo vedendo un film dell'ottimo Steve McQueen. Questo perché il vero shock, in 12 Years a Slave, non è la schiena distrutta e solcata da sanguinolente piaghe della giovane schiava alla fine del film, ma è l'imprevedibile stasi visiva che adopera McQueen nel riprendere il disperato Solomon, vittima di un mondo molto più ambiguo di quanto appaia, appeso ad un ramo tramite una corda intorno al suo collo, con i suoi piedi che cercano affannati il contatto con la terra fangosa; è la lenta scivolata leggiadra e inspiegabile vicino ai rami di un salice che senza figure umani troneggia in un paesaggio di pochi attimi, con una luce solare filtrata dalle sue fronde; è l'immagine disperata e suggestiva di un Chiwetel Ejiofor davvero incredibile che tra un movimento di pupille e l'altro finisce per fissare noi, in maniera tale da coinvolgerci a livello sensoriale, a livello mentale, fino a farci star male; è l'inconcepibile sguardo ferito della schiavetta poco prima frustata, che guarda Solomon come chi guarda un mezzo fautore - involontario - della propria sofferenza fisica, in uno sguardo che mischia gratitudine al sottile rancore.
E' la forma, in 12 Years a Slave, a sconvolgere, per la sua incredibile (e ammiccante) sfrontatezza di fronte al procedere normale e rigoroso delle varie notevolissime sequenze in cui un nuovo/vecchio Wladyslaw Szpilman, errante per le ceneri di un mondo in via di distruzione, con violino alla mano, sfuggito alla morte ma completamente invischiato in un male storico e civile che tiranneggia imperante, cerca di riaffermare una propria libertà che è poi un po' come riaffermare una dignità umana così tanto abolita, sotterrata e infangata, dopo averla persa perché trasformati con la forza in oggetti di morboso "possesso" in un'epoca in cui tutto andrebbe visto in maniera molto problematica e tutt'altro che concisa. Cosicché McQueen, che approfitta di questa storia per tornare su temi inerenti l'essere umano che possano trattare da vicino dimensione fisica e dimensione psichica dell'uomo stesso, inserisce negli anfratti fra un momento romanzato e un altro un approccio tutt'altro che semplicistico nei confronti di un morbo pestilenziale e morale che contagiò il Sud dell'America in pieno '800. Non è il solito schiavismo ad essere raccontato, quanto piuttosto quello perpetuato nei confronti di uomini di colore liberati e definitivamente "vivi" seppure richiamati a una schiavitù quasi genetica solo per un colore della pelle che non sembra richiedere maggiore accertamento burocratico, tanto che Solomon viene rapito e venduto senza che possa dimostrare davvero di essere un uomo libero poiché derubato anche dei suoi documenti. Se il vittimismo governa per la maggior parte del lungometraggio (e pure non è il solo difetto di questo comunque notevole film di McQueen), non è questo il fulcro della narrazione del regista: egli infatti sembra più interessato a tracciare profili umani profondi e accattivanti, tramite uno stile leccato ma estremamente elegante che non fa altro che bene all'intero prodotto perché lo depura di una serie di ridondanze che sarebbero facilmente insorte nelle scene che volevano apparire più commoventi e strappalacrime (tant'è vero che queste non ci sono proprio, o sono commoventi per motivi davvero profondi e non certo superficiali). La sceneggiatura poi concorre al delineamento di questi caratteri, con piccole perle quali il confronto fra Solomon e la schiavetta nella tenuta del bestiale e grandissimo Michael Fassbender, e ancora il confronto fra Solomon e la schiava Eliza nella tenuta del primo proprietario terriero: se infatti nel primo caso il confronto si basa sulla richiesta da parte della schiavetta di essere uccisa perché sofferente in una vita che non le dà più risposte (e la "morte piuttosto che la sofferenza" è qualcosa di risaputo ma di fronte alla quale realmente - in questo film - ci sentiamo improvvisamente poveri e indifesi), nel secondo il dialogo si incentra non solo sull'importanza della sofferenza morale (in cui si può affondare ma che è anche un estremo atto di ribellione nei confronti di una possibile alienazione di fronte alla sofferenza fisica - vedi la scena della messa), ma anche sul ruolo del primo proprietario terriero che è sì uno schiavista, ma lo è (parole di Solomon) date le circostanze, tanto che McQueen riporta improvvisamente in ballo quella che è una vera contestualizzazione storica, meritevole di plauso: lo schiavista non è certo giustificato, ma è sicuramente un personaggio positivo, che si adegua e preferisce trattare bene i propri servi (concedendogli libertà di parola e spesso di operato) piuttosto che provare ardite e improbabili volontà eroiche incontestualizzabili. C'è dunque profonda ambiguità, in 12 Years a Slave, che non è liquidabile in quattro e quattr'otto, e che anzi McQueen sembra complicare ulteriormente con la frase della sorella del primo proprietario terriero ("dopo una lavata e un po' di riposo, dei tuoi figli te ne scorderai") e con la comparsata, un po' forzata e comunque coerente, dello "schiavo bianco", che poi si rivela per giunta un traditore. Non è poi sul rapporto vittima-carneficie che finisce per porre la lente di ingrandimento McQueen, quanto piuttosto sul rapporto fra mente e corpo nel momento in cui si entra a contatto con il fenomeno tanto inspiegabile quanto feroce della schiavitù, che è nutrito dall'idea malsana e abbastanza alienante di per sé per cui si può arrivare davvero a possedere qualcuno e farne sfregio secondo i propri umori e le proprie convinzioni (le prime frasi pronunciate da Fassbender sembrerebbero banali, se poi subito dopo non si rivelassero provenire da chissà quale versetto anche un po' male interpretato delle Sacre Scritture). Se a cozzare sono sistemi valoriali umani quando a confrontarsi sono Ejiofor e Fassbender, al contempo si stanno confrontando due menti e due corpi, due convinzioni, due latitanti dignità, perse da un lato a causa della corruzione fisica, dall'altro tramite una violenza tesa a coprire una profonda desolazione. Così arricchendo di spessore l'aspetto formale e l'aspetto tematico (arrotondando il tutto con l'inutile apparizione di Brad Pitt, che fa un po' da deus ex machina per l'intero congegno narrativo), McQueen realizza un film particolarmente pessimista, checché se ne dica dal finale, in cui l'essere umano procede cieco e incapace di controllare i suoi furori, letteralmente "sfondato" dai più oscuri meandri della storia umana.
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