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12 anni schiavo

Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film

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La recensione su 12 anni schiavo

di lorebalda
7 stelle

 

Bellezza e brutalità

 

Una premessa obbligata. Mi sono avvicinato al film senza certezze. Tanti gli interrogativi: Steve McQueen si sarà “venduto”? 12 Years a Slave sarà un prodotto anonimo, convenzionale? Il battage pubblicitario formatosi intorno al film e l'esiguo numero di critiche negative mettevano tanti, tantissimi dubbi. Il regista artista di Hunger e Shame avrà davvero realizzato un “drammone hollywoodiano”? Dopo i primi 15 minuti (un incipit da avvicinare a quello di Shame), la risposta viene da sé, ed è un sollievo: 12 Years a Slave è un film al 100% di Steve McQueen.

 

Il contesto (anche produttivo) è diverso, certo, e qua e là emergono (evidenti) alcuni compromessi. Ma l'argomento, sempre durissimo e attuale, è svolto per buona parte in modo tutt'altro che convenzionale, con primi piani di incredibile carica emozionale, improvvisi shock e fluide e insostenibili long takes (e un pianosequenza da antologia).

Certo, il film è lontano dall'essere quel capolavoro unanimemente riconosciuto dalla critica anglofona: lo script (di John Ridley) non è del regista, e in alcuni passaggi è approssimativo; Brad Pitt è fuori parte (come doveva essere Sam Bass all'epoca?); il montaggio di alcune scene dialogate è impersonale; gli ultimissimi minuti ahimé cedono alla retorica hollywoodiana. Ma 12 Years a Slave è anche questo: un'operazione di mimetismo cinematografico.

 

La forma del film è ambigua (non vi fidate di chi scrive che è un film “senza sguardo”), è gonfia e tirata a lucido (fotografia di Sean Bobbitt) e, come sempre in McQueen, veicola il contenuto, il senso dell'intera operazione. La prima immagine, un tableau vivant, apre 12 Years a Slave in medias res con una sequenza che fa da collante a tutto il film, riassumendolo. Il regista britannico scardina come di consueto la cronologia degli eventi, prosciugando i flashback di qualsiasi retorica. E sono proprio i flashback, che intervengono sempre meno a spezzare la narrazione, a ricordare il tempo che passa, inesorabile: i ricordi svaniscono.

Sono ancora il corpo e la mente il campo di battaglia del cinema di McQueen, e di questo film in particolare. Il regista infatti non arretra di fronte alle frustrate e ai soprusi subiti dagli schiavi, con inquadrature prolungate che accentuano a dismisura la brutalità di questi atti. Soprattutto è potente l'uso del primo piano: McQueen contempla l'orrore (e il tempo che passa) sul volto dei personaggi, di Solomon per primo, protagonista suo malgrado dell'incubo della schiavitù. Come in Hunger e in Shame, il calvario del personaggio principale è innanzitutto formale: privato della propria libertà, Solomon viene relegato ai margini dell'inquadratura, immerso nell'oscurità, schiavo fra gli schiavi.

 

A riconferma dell'estrema consapevolezza formale di McQueen, la scelta non è casuale. La situazione infatti è destinata a capovolgersi: col passare dei minuti Solomon riconquista, grazie alla sua educazione, la propria posizione al centro dell'inquadratura, ma senza nessun vantaggio, perché gli schiavisti faranno di tutto per riportarlo a una condizione (anche figurativa) di inferiorità. Nella sequenza più dura e potente del film (e che non a caso arriva dopo l'unico momento veramente didascalico di 12 Years a Slave), un eccezionale pianosequenza di cinque minuti, Solomon pagherà a carissimo prezzo la centralità conquistata nell'inquadratura.

 

Dunque la forma è tutt'altro che convenzionale: se 12 Years a Slave è un “drammone hollywoodiano”, lo è soltanto superficialmente. In realtà, come alcuni hanno notato, quello di Steve McQueen è un film martellante sui sensi dello spettatore (stupefacente l'impasto sonoro), tanto quanto Hunger. Il regista britannico inquadra frontalmente l'orrore e lo inserisce in una cornice naturale e figurativa di sfolgorante bellezza. Significativa, in questo senso, la sequenza di Solomon legato per il collo a un albero: sullo sfondo i bambini giocano, tutti lo ignorano; la composizione è perfetta, i contorni dell'inquadratura nitidissimi. Bellezza e brutalità: è questa dicotomia l'asse portante di tutta l'opera cinematografica di McQueen, e la sua più intelligente (e non sempre compresa) provocazione. Lo spettatore non lo ammetterà mai, ma 12 Years a Slave è un film bello da vedere; le sequenze di tortura sono (cinematograficamente parlando) belle; la sofferenza del film è bella (c'è un magnifico primo piano silenzioso di Solomon, verso la fine, che guarda dritto in macchina: tutto il senso dell'operazione sta in questa inquadratura). Ed è proprio in questa insanabile contraddizione, e nello stile potente, che sta la personalità, e la forza, di McQueen regista di cinema: attrarre lo sguardo dello spettatore,costringerlo a guardare.

 

Ho letto che il film metterebbe i buoni da una parte e i cattivi dall'altra [1]. Non sono d'accordo. Gli schiavisti di 12 Years a Slave non sono degli «psicopatici»; i neri non sono i «buoni» (che film hanno visto?). Non rivelerò le svolte della trama (penso all'episodio del viaggio in mare; e pure Solomon, il protagonista, si comporta in modo tutt'altro che irreprensibile: pensate alla richiesta che la schiava Patsey gli fa di nascosto, di notte; pensate alla sua risposta di lui, “It's just melancholia”): posso riprendere soltanto quanto ha già scritto, con provocatoria intelligenza, James Franco, quando nota che il personaggio dell'eccellente Fassbender (il più riprovevole di 12 Years a Slave) esercita una perversa fascinazione sullo spettatore, e sulla stessa messa in scena, improvvisamente monopolizzata. Scrive Franco:

 

«Guardate Fassbender prendere in mano il film. È la storia di Northup, ma quando arriva Epps il film si focalizza su di lui. Ci sono sequenze di Epps, da solo, che non sono presenti nel libro (…). Addirittura la prospettiva del film (vediamo soltanto quello che vede Northup) viene sconvolta una volta che arriva Fassbender. Northup osserva segretamente Epps e la schiava Patsey fare sesso nell'oscurità? Ho dei dubbi. Mentre non ci sono dubbi sul fatto che lui non sia vicino a Epps quando questi guarda gli schiavi lavorare e li maledice in solitudine. (…) Questo è il film di Fassbender» [2].

 

Franco ha ragione: Epps è il personaggio più riuscito e ambiguamente affascinante di tutto il film di McQueen, ed è, da un certo punto in poi, il più grande (l'unico?) motivo di interesse di 12 Years a Slave. E questo sarebbe manicheismo?

 

Cito nuovamente il pianosequenza di tortura verso la fine. Epps si prepara a frustare Patsey; la moglie lo invita a colpire la schiava senza pietà. Guardate Fassbender (in questa sequenza McQueen non si focalizza mai su Ejiofor, l'eccellente interprete di Solomon): quante emozioni, quanta ambiguità riesce ad esprimere. Chi trova che il personaggio di Epps sia stato scritto male, che l'interpretazione di Fassbender sia «insulsa», dovrebbe forse rivedere con più attenzione questa sequenza [3]. Dunque il rigore morale è solo apparente. McQueen non lo ammetterà mai, eppure le immagini non mentono: 12 Years a Slave, dopo Hunger e Shame, è un nuovo capitolo dell'esaltazione del suo attore prediletto. Un film di Steve McQueen e Michael Fassbender.

 

 

[1] «Ma 12 anni schiavo affronta il tema [della schiavitù] con un doppio difetto. Il primo è ideologico:per sostenere l'abominio del sistema schiavista in vigore nel Sud degli Usa prima della guerra di secessione, racconta un mondo in cui tutti i neri sono buoni e tutti i bianchi (tranne Brad Pitt, nel finale) sono feroci assassini con la bava alla bocca. Di più. Non è solo un problema di 'buoni' e 'cattivi' (che già renderebbe il film schematico). Il problema vero, che inficia qualunque buona intenzione da parte degli autori, è che quasi tutti i padroni bianchi che nel corso della trama vessano il protagonista sono degli psicopatici, sessualmente e psichicamente tarati. Ridurre la schiavitù ad una patologia è una bizzarra 'diminutio' del problema» (Alberto Crespi).

 

[2] http://www.vice.com/read/fassy-b-heats-up-twelve-years-a-slave

 

[3] «Voto: 4/10. Il nulla. Per di più con attori altrove bravi e qui insulsi (vedi Fassbender). E se qualcuno usa ancora la videoarte come alibi (perché??? a che serve??? applicata a cosa???), merita tante frustate quante ne subisce quella povera cretinetti della Lupita Nyong'o» (Pier Maria Bocchi).

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