Regia di Toni D'Angelo vedi scheda film
“She came to me one morning
One lonely Sunday morning
Her long hair flowing
In the midwinter wind
I know not how she found me”…
(Lady in Black – Uriah Heep)
Secondo lungometraggio di finzione di Toni D’Angelo, L’innocenza di Clara è un noir dell’anima. Le intenzioni del regista sono esplicitate già dai titoli di testa: una citazione di Silvano Agosti (“le gabbie che racchiudono gli esseri umani sono invisibili, per questo le loro sbarre risultano invalicabili”) indirizza lo sguardo dello spettatore invitandolo ad andare oltre il visibile, oltre a ciò che verrà raccontato in scena. Se la storia di Clara è ispirata a un fatto di cronaca di qualche tempo fa, l’opera di D’Angelo trova invece radice nel cinema francese degli anni Cinquanta, con chiaro riferimento a Chabrol e a un cinema fatto più di parole, recitazione e messa in scena, piuttosto che di azione esplicita. D’Angelo sceglie coraggiosamente di filmare un “noir bianco”, in cui alle classiche atmosfere fatte di contrasti tra nero e bianco sostituisce un bianco accecante che riflette il contesto in cui la storia ha luogo. Attenzione però a non considerare il bianco come un elemento metaforico: la luce – naturale e ricercata costantemente attraverso l’uso di grandi finestre - diventa semmai un’apertura di sguardi e orizzonti verso una situazione comune nella sua eccezionalità. Di nero, ne rimane poco ma ben dosato: una scena davanti al camino girata con una soluzione stilistica particolarmente interessante (l’inquadratura si allarga man mano che i due personaggi – Clara e la moglie di Giovanni – si aprono l’una all’altra), un abito e una bottiglia di vino che accompagnano una danza solitaria e un tatuaggio che sembra far capolino a tradimento ma che diventa rappresentativo di un’intera personalità.
La trama è abbastanza semplice: una donna (Clara) si insinua nel profondo rapporto di amicizia tra due uomini (Maurizio e Giovanni), rompendo un equilibrio prestabilito, un ordine naturale delle cose che si tramanda di generazione in generazione. L’amore, il tradimento e il crimine diventano soltanto orpelli per soffermarsi sulla complessa psicologia di una donna forse troppo annoiata, forse troppo innamorata, forse troppo costretta a reprimersi. Clara conosce Maurizio e nel giro di poco tempo diventa sua moglie. D’Angelo mette subito in piazza le motivazioni che spingono Clara a sposare Maurizio: stanca di essere l’altra donna e di amare soltanto nei ritagli di tempo libero, Clara necessità di stabilità e di qualcuno che le stia accanto in un’esistenza marcata da solitudine. Di Clara, la femme fatale, sappiamo ben poco. Il regista dissemina indizi che a prima vista sembrano ininfluenti: un amante che incontra in un motel, un padre ormai senza memoria a cui fa visita in ospizio ritualmente - l’avverbio non è usato a caso: durante L’innocenza di Clara, la donna fa visita al padre due volte e D’Angelo costruisce le scene in maniera identica, ripetendo inquadrature, dialoghi, vestiti e gesti, e cambiando soltanto l’uomo che accompagna Clara – e nient’altro. Né un lavoro, né un aneddoto del passato: solo mistero intorno alla sua fragile e naturale bellezza.
Diventa però presto chiaro che Clara è fuori luogo. È arrivata in un piccolo paesino di montagna in cui vigono ancora leggi (sociologicamente) tribali, condivise da tutti e difficilmente condannabili proprio perché ancorate nella tradizione del posto: le donne sono destinate a stare in casa, a prendersi cura della famiglia e a fare l’amore. La vita al di là delle finestre appartiene agli uomini: loro lavorano, vanno a caccia, passano al bar e dispongono della vita delle loro donne. Seppur inizialmente affascinata dalla nuova vita casalinga (l’entusiasmo per le attività domestiche lascia gradualmente posto alla noia e alla frustrazione), Clara ha bisogno di evadere: è la prima donna ad avvicinarsi alla cava e a infrangere un territorio prettamente maschile, è la sola che si avventura a bere un bicchiere di vino in un locale ed è colei che spinge Angela, la figlia di Giovanni, a credere in sé stessa, ad alzare la testa alle volontà del padre e a tentare un accenno di ribellione. I suoi tentativi di fuga, sintomatici di un’anima spaccata in due tra l’andare e il restare (come nel moto perpetuo di un’altalena), portano inesorabilmente verso la tragedia. Simbolo del diverso che interrompe un ordine prestabilito, Clara diventa fonte di tragedia: è il terzo (involontario) incomodo che si insinua nel simbiotico – ma mai morboso - rapporto di amicizia tra Giovanni e Maurizio, è la fedifraga che tradisce il marito, è colei che con uno sguardo ammalia Giovanni senza mai concedersi fisicamente o senza mai far nulla di particolare o di spinto per attirarlo nella sua rete. Quella di Clara, in definitiva, è solo una colpevolezza morale che si trasforma in innocenza reale: Clara non determina il corso degli eventi ma lo subisce, si lascia semplicemente andare alla sua indole di donna che ha bisogno di essere amata in maniera esclusiva e totalizzante. Nonostante straveda per lei, Maurizio continua la sua normale routine senza mai pensare a quanto per Clara quella nuova vita sia difficile da assorbire: trapiantata in un mondo non suo, non ne capisce i meccanismi e diventa vittima a sua volta di una “formazione” mancata. Mentre per la moglie di Giovanni, vivere tra le cave con il tempo è diventato facile, così non sarà mai per Clara, che cede alla tentazione di uno squillo e di un incontro clandestino.
La tragedia, che non trova colpevoli né tanto meno risposte, va ben oltre il semplice omicidio-suicidio, si fissa nella mente e apre scenari più ampi: Fino a che cosa ci si può spingere per amore? Fino a cosa ci si può spingere per la libertà?
D’Angelo sceglie di chiudere con un finale ambiguo. La scena del funerale di Maurizio è emblematica: la sofferenza e le lacrime che rigano il volto di Clara sono reali, così come lo è il rancore nei confronti di Giovanni che trapela dallo sguardo, ma mentre va via, nel suo abito nero, da sotto la chioma bionda emerge tatuato un sole nero, simbolo di vita e di morte al tempo stesso. È davvero lei l’artefice di tutto ciò che è successo? Il dubbio rimane, il tunnel che visivamente accompagna il finale (in maniera simmetrica, lo stesso tunnel accompagna anche la sequenza iniziale del film) si trasforma nel confine di separazione tra la colpa e il ritorno all’ordine morale, tra la scena del delitto e la prigione che da fisica diventa metaforica, tra una realtà sospesa nel tempo e il mondo che va avanti.
Ciò che rende L’innocenza di Clara un’opera di grande fascino sono soprattutto le prove di recitazione e di regia. A una coppia di amici interpretata in maniera realistica da Gimignani e Lionello fa da controcanto la bellezza e la bravura di Chiara Conti, a cui non servono trucchi e abiti d’alta moda per trasformarsi in femme fatale. Bastano gesti, sguardi e toni per “innamorarsi” di Clara, per giustificare ogni sua (anche discutibile) scelta e per assolverla da ogni tentazione di condanna. Il filo di rossetto rosso – fiamme, fuoco e passione - che raramente accompagna il suo volto fa da contrasto e punto di rottura al bianco placido e funereo del marmo (lo stesso contrasto, visivamente forte, si ha nel momento in cui sul finale del sangue ricopre una delle statue della Madonna in marmo che Giovanni scolpisce) e al cupo verde di boschi (quelli cinematograficamente inediti della Lunigiana) che custodiranno in eterno il segreto di ciò che è successo. Padrone assoluto della macchina da presa, Toni D’Angelo regala qualche esercizio di stile che sorprende piacevolmente per la resa scenica: squarci di boschi che sembrano fotografie, visite in ospizio costruite con abile tecnica (per fare un esempio, i protagonisti camminano attraverso il loro riflesso su mura e pavimenti di lucido marmo), chiusure degli sportelli delle auto accompagnate da una videocamera che sembra attaccata agli stessi, linee di fuga che regolano prospettive e punti di vista insoliti per le scene in cui Clara è seduta al tavolo di un bar, finestre troppo grandi di una casa che separa dalla libertà, la sequenza in cui Clara prova a spaccare della legna e l’andirivieni di un’altalena sono frutto di un occhio attento a coniugare maestria e poesia, senza mai cadere in espedienti formali privi di significato. Pregio che non appartiene a molti nel nostro cinema.
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