Regia di Atom Egoyan vedi scheda film
Delusione massiccia questo stanco film di Atom Egoyan, regista che più di una volta ha regalato piccoli gioielli di sottile crudeltà avvolti nelle ombre del mistero. Questa invece è paccottiglia alimentare, didascalica e buttata lì, un tanto al chilo a fare minutaggio per un’opera che più che brutta è inutile. E dire che la storia sarebbe stata pienamente nelle corde del regista armeno avendo in sé tutte le prerogative del suo cinema. La storia di Devil’s Knot è impastata nel thriller e connotata dall’ adolescenza tormentata in una realtà che perde ogni oggettività e si carica di menzogne.
Il film è tratto dal reportage giornalistico su un notissimo caso di cronaca nera sublimato poi in uno dei più grandi errori giudiziari della storia del diritto americano: Devil’s Knot: The True Story of the West Memphis Three di Mara Leveritt del 2002.
Nel 1993 in un sobborgo rurale della cittadina di West Memphis, Arkansas, tre ragazzini di otto anni scompaiono misteriosamente per poi venire ritrovati cadaveri in un luogo in mezzo al bosco dal nome evocativo di Devil’s Knot. Del triplice omicidio vengono accusati Damien Echols, Jason Baldwin e Jessie Misskelley (ribattezzati The West Memphis Three) tre adolescenti problematici della zona. Nonostante le prove lacunose quando non totalmente infondate, sotto la pressione della sete di giustizia della comunità in preda ad un’isteria collettiva causata dal panico per le sette sataniche, i tre vengono condannati a morte (Damien) e all’ergastolo (Jason e Jessie). Nel 2011, dopo diciotto anni verranno scarcerati e le identità degli autori del delitto ancora oggi non sono note. Il libro della Leveritt sostenendo la tesi dell’innocenza dei ragazzi mette a fuoco invece la figura ambigua del padrino di una delle giovani vittime e la sua possibile connessione con gli omicidi.
Tutto questo non è uno spoiler poiché di questo film incompiuto e inconcludente non c’è proprio nulla da spoilerare visto che la storia è vera, recente, nota, già oggetto di trasposizione filmica con un trittico di documentari fortemente critici nei confronti del verdetto giudiziario: Paradise Lost: gli omicidi famiglia in Robin Hood Hills , Paradise Lost 2: Revelations , e Paradise Lost 3: Purgatory , diretto da Joe Berlinger e Bruce Sinofsky
La cosa interessante è tutto ciò che sta dietro la vicenda ma che nel film di Egoyan non si vede o si intuisce e basta: la comunità rozza e ignorante che fa dell’osservanza religiosa, del pregiudizio e della retorica del buon lavoratore le leve sulle quali elevarsi al ruolo di sana comunità. In realtà nelle ombre si nascondono sospetti di sette sataniche, riti di magia e una follia strisciante. Il villaggio dei dannati non è posseduto dal demonio, piuttosto dal Dio dei Perdenti, quello che si sostituisca al buon senso e alla razionalità dell’uomo civile per imporre un autoindulgente sentimento di cieca vendetta verso il diverso, l’emarginato.
I tre adolescenti sono disadattati, quando non mentalmente arretrati. Uno di loro si veste di nero e ascolta la musica heavy metal (una delle prove della giuria! Ma siamo ancora in territorio di guerra civile tra benpensanti e heavy metal) attratto più dalla forma del simbolismo che accompagna la musica che dai suoi veri significati esoterici. Il ragazzo è il capro espiatorio sacrificato sull’altare di una giustizia furibonda, cieca e atavicamente ignorante. Se il ragazzo, amante dell’occulto cianciava di farlocchi riti sacrificali scopre con ribrezzo quanto può essere reale e spietata la vendetta della parte “civile” del culto, quella che assolve i buoni nel nome di Dio.
Arretratezza culturale, machismo e rozzezza, indigenza economica e istinti animaleschi soffocati nella noia esistenziale di un quotidiano demente.
Questo è il retro, tirato fuori a forza facendolo risaltare dalle nebbiose intenzioni della realizzazione del regista che in primo piano monta una didascalia vivente di personaggi scritti male, poco caratterizzati e poveri di statura drammatica. Tante parole che dicono poco e una seconda parte da legal thriller affogato nella convenzione. Senza un guizzo, uno spunto di regia, il racconto si adagia sulla ricostruzione paratelevisiva nella quale non c’è immagine che abbia un senso trascendente la mera meccanica degli eventi.
E’ chiaro che nelle intenzioni di Egoyan il film doveva servire a mostrare, attraverso la rozzezza dei suoi protagonisti, il tessuto sociale fiorito di pregiudizi e odio represso. Ma è rozzo anche il racconto dello stesso regista, raffazzonato e senza spessore. Un film che non eleva intellettualmente la comprensione della materia oscura che si muove ai margini della storia e che per contro non ha neppure la radicalità del film di genere per farsi cronista dei fatti di West Memphis.
Eroe al negativo è un immobile Colin Firth, e se nei film di genere i personaggi si definiscono da ciò che fanno, qui il buon Colin non fa nulla ratificando il nulla del film. Il suo personaggio, improbabile investigatore privato che in nome di un codice morale e un senso più alto di giustizia decide di indagare sui reali responsabili del crimine per far scagionare i ragazzi, di fatto è un catatonico osservatore della scena. Intontito in un’espressione colitico-dolente è un fantasma tra i fantasmi che vorrebbe replicare l’archetipo del private eye dal passato oscuro con l’ex moglie che lo protegge (il colloquio al bar è penoso) e una segretaria che lo chiama “capo”. Completano il cast Reese Witherspoon in versione casalinga culona, e la piccola parte, sprecata, di uno dei migliori attori della sua generazione, Dane DeHaan.
Non si capisce allora quale sia stato l’interesse di Egoyan nel montare questo non-thriller, visto che non si cerca l’assassino; non-reportage, visto che si adagia meccanicamente sulle pagine del libro in uno sterile esercizio di compilazione di scene; non-film denuncia, visto che di fatto non denuncia nulla e non-trattato socio/antropologico sull’America vera, quella devota, bigotta e ipocrita. Forse voleva essere tutto questo nello stesso momento ma si sa, i film sono piccoli miracoli che a volte non si avverano.
Alla fine, esausti, i cartelli in sovraimpressione informano sulla sorte dei personaggi nella realtà, colpevoli di essere divenuti capro espiatorio sia di una società assassina, sia di un film dimenticabile in fretta. Che è peggio.
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