Regia di Atom Egoyan vedi scheda film
Questa penultima fatica di Atom Egoyan, che ripropone i fatti di un turpe avvenimento ripreso dall’attualità, ma che in effetti si ispira al best sellers di Mara Leveritt Devil’s Knot: theTrue Story of the West Menphis Threeè solo un pallido epigono che fa malinconia, se si confronta con le ben più coinvolgenti ambiguità delle opere del suo ormai lontano esordio che me lo avevano fatto catalogare fra le più interessanti “promesse” di fine novecento (in campo cinematografico, ovviamente).Un nome insomma che – date le premesse – pensavo fosse in grado di portare se non proprio una “rivoluzione”, per lo meno un personale e fattivo contributo in divenire (nei temi e nel linguaggio) dentro all’intrigante genere del “giallo a tesi” rispetto a ciò che veniva ormai sfornato dalla cinematografia mainstream di quegli anni in quello specifico settore, sempre più omologata e priva di “scossoni” emozionali.
Ben poco invece c’è ormai rimasto dentro, e a questo punto credo che – senza nulla togliere alla validità delle sue opere di fine ‘novecento – si possa proprio dire che l’aver riposto in lui così tante aspettative (io come ho detto, ci avrei davvero scommesso sopra) è stata soltanto la fugace illusione di un momento o poco più. Il suo percorso creativo infatti si è andato lentamente sfaldando soprattutto per quel che ha prodotto dopo la realizzazione di un paio di pellicole forse un po’ troppo “teoriche” oltre che “anomale”, ma in ogni caso ancora interessanti che lette a posteriori, avrebbero comunque già potuto certificare una latenza ispirativa (che si è poi amplificata in progressione) testimoniata da quel deragliamento verso progetti certamente ambiziosi, ma comunque non proprio nelle sue corde.
Mi riferisco nella fattispecie a L’ultimo nastro di Krapp (2000), sentito omaggio a Beckett e alla sublime arte recitativa di John Hurt, organizzato intorno a molti primi piani dell’attore dentro a un ininterrotto susseguirsi di piani sequenza (l’ultimo dei quali, di ben 20 minuti senza stacchi, è un pezzo di inarrivabile bravura – di ripresa e di interpretazione - ipnotico e commovente) e al successivo, complesso e ambizioso lavoro (ma solo parzialmente riuscito a causa dell’eccessiva farraginosità della messa in scena), vero e proprio “tuffo nel passato”, col quale ha provato a testimoniare la tragedia della sua vessata etnia concentrandosi soprattutto sulla necessità di mantenere attivo il ricordo di quei fatti ormai lontani anche nelle nuove generazioni del presente che sono gli eredi dei sopravvissuti all’ecatombe, nati e cresciuti nel forzato esilio in terra straniera dei loro antenati. Parlo di Ararat – il monte dell’arca (2002) concentrato sul drammatico tema del genocidio del popolo armeno consumato dall’esercito turco nel triennio 1915-17 ingiustamente rimosso dalla memoria collettiva internazionale, pur trattandosi di un episodio non meno luttuoso ed esecrabile rispetto a quello della shoah, se non per il differente numero delle vittime comunque terribilmente elevato anche in questo caso (le persone brutalmente sterminate superarono infatti il milione), il cui principale difetto è forse quello di un eccesso di verbosità che toglie pathos all’approccio.
E’ a mio avviso però con False verità (2005) - dove comunque non tutto era da buttare, tutt’altro – che si comincia a percepire qualche preoccupante crepa che nel prosieguo diventerà sempre più macroscopica, fino ad arrivare a quella ormai insanabile frattura che si avverte dentro questo Devil’s Knot (passato anche dal Festival di Toronto) dove a mio avviso rimane davvero molto poco da salvare se si escludono i contributi di una “bella” fotografia , della pregevole colonna sonora e – parzialmente- del montaggio, elementi indubbiamente preziosi ma insufficienti ad assolverlo, o renderlo semplicemente “dignitoso”, anche perché sullo stesso argomento dell’infanzia così brutalmente violata, ma anche sull'ingannevolezza delle apparenze e la fallacità della giustizia (o presunta tale), abbiamo già fulgidi esempi di maggior consistenza e valore (mi riferisco in particolare al magnifico Mystic River di Clint Eastwood e al recente, altrettanto notevole e disturbante Prisoners di Devis Villeneuve) che ce lo fanno ulteriormente svalutare nell’impietoso confronto che mette in evidenza i limiti dei risultati raggiunti da Egoyan.
Ricostruendo le dinamiche di un noto caso criminale e giudiziario controverso quanto misterioso, che aveva così scosso l’opinione pubblica soprattutto americana da generare molteplici inchieste, libri, documentari e ulteriori opere a soggetto (da citare per lo meno il trittico di Paradise Lost: gli omicidi famiglia in Robin Hood Hills , Paradise Lost 2: Revelations , e Paradise Lost 3: Purgatorydi Joe Berlinguer e Bruce Sinofsky e West of Menphis – creatura di Peter Jackson affidata alla regia di Amy Berg) Egoyan realizza così il suo drama-thriller che riprende di nuovo quegli avvenimenti senza però molto aggiungere a quanto ci era già stato raccontato.
Partendo dai differenti punti di osservazione dei vari personaggi, il regista prova a mettere di nuovo a fuoco lo svolgimenti dei fatti (anche ipotetico, ma rimanendo sempre troppo vincolato a ciò che di quei drammatici avvenimenti si conosceva già) concentrandosi soprattutto sulle successive carenze investigative e processuali frutto di una giustizia che vuole sempre avere “ad ogni costo” qualcuno a cui far pagare il fio, che hanno a suo tempo portato a individuare i colpevoli – veri o presunti non importa proprio - in tre giovani “disadattati” (o considerati tali) della comunità.
Come si può ben vedere insomma, tematiche davvero molto care al regista (la questione dell’identità e delle radici familiari, l’innocenza violata, le vite stroncate sul nascere che creano lacerazioni impossibili da ricucire) e spesso “privilegiate” e ricorrenti nelle sue opere (soprattutto in quelle della fase iniziale della sua carriera), a partire da Family Viewing e da The Adjuster, quando Egoyan stava facendo i primi passi nell’insidioso mondo della celluloide e mostrava già un acerbo ma promettente talento, e prima di diventare un vero e proprio maestro capace di costruire intorno alle sue profonde analisi psicologiche davvero spiazzanti, una suspense fatta di atmosfere ambiguamente provocatorie che attingono dal thriller e dal noir, una qualità che arriverà a perfetta maturazione definendo il suo stile, con Exotica e i suoi morbosi rapporti edipici (il film che lo ha fatto conoscere e lo ha immediatamente lanciato nel panorama internazionale dei registi che “contano”) e ciò che poi è venuto immediatamente dopo. Mi riferisco agli intrecci temporali de Il dolce domani utilizzati per mettere meglio a nudo emozioni forti quali dolore, la perdita, il senso dell’inadeguatezza di un intero paese distrutto da una terribile tragedia, il cui sotterraneo senso di colpa finirà per “schiacciare” una comunità ormai incapace di esorcizzarlo, e la minacciosa, sinistra esplorazione del buio dell’inconscio operata dentro alla mente di un “cortese e gentile” serial-killer ne Il viaggio di Felicia.
Nonostante il parzialmente riuscito False verità già citato prima e le altrettanto deludenti prove di Adoratione Chloeche hanno reso sempre più involuti ed estetizzanti gli ultimi dieci anni della sua carriera, io personalmente avevo immaginato che in questo nuovo progetto ci potessero essere molti elementi che avrebbero potuto (dovuto) sollecitare di nuovo la sua creatività e rendere di conseguenza più vigorosa la sua mano. Nutrivo di conseguenza forti speranze di “rinascita” che mi hanno indotto ad affrontare la visione con molte aspettative, cosa che invece (e purtroppo) non è accaduta, tutt’altro (e forse è anche per questo che magari sono un tantino più “cattivo” del dovuto nel giudicare negativamente il risultato).
La storia è presto detta, ed è di quelle che potremmo definire inquietanti e disturbanti nel suo mettere in luce le perverse, aberranti anomalie che si nascondono spesso dietro a un’apparente “normalità” solo fittizia.
Il problema però è che poi il regista nel suo riproporla anche troppo fedelmente, ce la racconta con scarsa partecipazione emotiva e una regia che si potrebbe definire “distratta” che rende di conseguenza carente (a me è sembrato quasi del tutto assente) il senso angosciante dell’orrore che avrebbe invece dovuto far percepire allo spettatore.
Nel dettaglio, i fatti si svolgono in un pomeriggio del 1993 non molto diverso da tutti gli altri se non per l’improvvisa scomparsa di tre bambini di 8 anni usciti a fare un giro con la loro bicicletta che non faranno più ritorno a casa, nel sonnacchioso sobborgo di West Memphis (Arkansas) abitato da impiegati e proletari.
I corpi dei tre fanciulli, con segni di percosse e di violenza sessuale, verranno poi ben presto ritrovati senza vita, abbandonati in una zona limitrofa alle loro abitazioni, e come sempre accade in queste circostanze, nasce immediatamente la diffidenza che inizialmente è di tutti contro tutti, ma poi comincia a materializzarsi soprattutto nei confronti di coloro che per i loro comportamenti anomali o presunti tali, vengono ritenuti dai più i probabili artefici di un misfatto così terrorizzante che ha assolutamente bisogno di un colpevole per esorcizzare la paura. Si diffondono così a macchia d’olio pregiudizi e insinuazioni che dopo meno di un mese, sulla base di testimonianze molto discutibili e di supposizioni altrettanto prive di riscontri “certi”, portano la polizia a identificare come autori di tali turpi delitti, tre giovani fra i 16 e i 18 anni “colpevoli” di amare l’heavy metal con le sue “diaboliche” suggestioni e di essere sospettati di praticare attivamente presunti riti satanici.
Nonostante la labilità degli indizi, saranno insomma soprattutto le loro “anomale” passioni che denotano una sospetta “diversità non omologata”, le cause primarie che li porterà prima ad essere arrestati, e poi definitivamente accusati degli abusi e dei delitti, nel corso di un processo davvero sommario alla fine del quale (dando origine a un altrettanto terribile errore giudiziario) saranno giudicati colpevoli di quella aberrazione, e conseguentemente – nonostante che continuino a proclamarsi innocenti e l’oggettiva inconsistenza del teorema accusatorio - condannati, due all’ergastolo, e il terzo addirittura alla pena capitale.
Non tutti però si ritengono soddisfatti da quella sentenza che fa davvero acqua da ogni parte, e in particolare i dubbi assalgono un investigatore privato, Ron Lax (Colin Firth) e addirittura Pamela Hobbs (Reese Witherspoon) madre di uno dei ragazzi uccisi. I due alla fine, sempre più convinti che quegli omicidi vedano coinvolti altri personaggi ben più prossimi ai tre ragazzini violati e uccisi, si coalizzeranno insieme per raccogliere prove e testimonianze necessarie per aprire le porte a una revisione del processo che finalmente porti alla luce l’effettiva verità.
Indubbiamente interessante nell’approccio, perde però di forza e intensità via via che si procede nel racconto e non solo a causa di un eccesso di flashback che frammenta troppo le azioni. Il regista sembra infatti quasi ingessato, incapace di tirare davvero le fila dell’intera vicenda o di darle un taglio originale, quasi che si sentisse vincolato a una ferrea logica che lo obbliga a rimanere talmente fedele alle vicende del reale, da evitare ogni possibile “fuga” artistica e dare così al suo lavoro un’impronta più personale e sentita.
Anche la descrizione dei personaggi (appesantita dalla scialba prova di uno spaesato Colin Firth e di una Reese Withespoon notevolmente al di sotto dei suoi in genere positivi standard recitativi) appare spesso stereotipata, approssimativa, riluttante, non sufficientemente messa a fuoco e soprattutto incapace di aiutare la regia ad approfondire le pulsioni al male, la traccia del diabolico e del suo celarsi nei luoghi più inattesi, non certo in quelli indicati da un paese desideroso soprattutto di fare una crociata che si trasforma in una vera e propria nuova caccia alle streghe. E’ infatti soprattutto sotto questo profilo che la pellicola non quaglia perché le tematiche sono solo accennate e quasi sempre tenute fuori campo anziché essere mantenute al centro dell’azione come sarebbe stato invece necessario fare (ed anche i piccoli tentativi di un montaggio che timidamente a volte prova ad andare nella giusta direzione con suoni e di immagini anche contrapposti, risulta poi nel farlo, di una banalità talmente scontata da diventare quasi disturbante.
Manca insomma la capacità (e il coraggio) di mostrare ciò che non è atteso, o di provare a rappresentarlo visualizzandolo anche soltanto metaforicamente, così che alla fine prevale solo la bidimensionalità priva di slanci del più abusato e scontato legal thriller di stampo televisivo che si inerpica sul percorso fortemente usurato dei gialli che non hanno (né possono avere) una soluzione certa, e quindi fatalmente costretti a parlare di semplici ipotesi e suggestioni che qui ripercorrono e riprendono per altro tematiche già precedentemente trattate (anche cinematograficamente parlando) da opere come Paradise Lost e i suoi due seguiti, rispetto alle quali si aggiunge davvero molto poco anche sotto il profilo della creazione artistica, il che suscita l’indifferenza non partecipativa dello spettatore persino in una risoluzione conclusiva troppo titubante, che si rifugia nell'allusione, visto che non può fare altro, e conseguentemente obbligata a ricorrere a una lunga appendice esplicativa sui titoli di coda (che aumenta ulteriormente la distanza tra la forza dell'inquietudine palpabile emanata dai personaggi reali della vicenda dei West Memphis Three e la assai meno cinematografica traduzione in immagini operata dal regista). E’ infatti dalle altrettanto tediose didascalie finali che si apprende che solo nel 2011 e dopo un ulteriore processo, i tre ingiustamente condannati, dopo quasi vent’anni di carcerazione sono stati finalmente prosciolti e scarcerati (e per fortuna che la pena capitale non era stata eseguita) e che i delitti rimangono ancora oggi insoluti e impuniti. Ovviamente anche questa “necessaria” semplificazione che spinge la pellicola dalle parti di Law & Order, toglie la partecipazione emotiva di chi guarda dando un’ulteriore spinta al preoccupante flop del risultato.
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