Regia di Martin Lund vedi scheda film
Disadattamento. Ovvero la disgregazione del cinema. Che perde la sua patina di estetica narrativa per farci affondare le dita nello strato molle dell’ordinaria follia. Henrik e Tone sono solo in apparenza una coppia normale. Lui è un bambinone, che, nell’anima, è fermo all’adolescenza, mentre continua a nutrire, di nascosto, le passioni dell’infanzia. Lei è una ragazza dall’atteggiamento spregiudicato, che dietro quegli eccessi di tolleranza e disinvoltura cela, probabilmente, un fondo di grande incertezza sul modo più giusto di affrontare le incongruenze della vita. Tra queste, la più colossale è il rapporto con quell’uomo da cui aspetta un figlio, e che sembra clamorosamente assente ed impacciato, svogliato, mai serio, restio ad assumersi qualsiasi tipo di responsabilità, oltre che incapace di socializzare con gli estranei, come i suoi nuovi colleghi di lavoro, oppure i conoscenti di lei. Tone lo sopporta senza fare troppe storie, ci scherza su, dentro di sé minimizza per paura di guardare in faccia la realtà: Henrik è rimasto un timido ragazzaccio, che ama coltivare le sue strane manie nella solitudine, oppure in compagnia dei suoi vecchi compagni di bravate, immaturi come lui, però più sfacciati ed aggressivi. Quel piccolo gruppo di vandali impenitenti costituisce, per lui, la giusta corazza entro cui rifugiarsi nei momenti in cui si sente inadeguato. Solo in quella stravagante cerchia di burloni la sua sindrome di Peter Pan acquisisce, di riflesso, una dignità virile, infarcita di sesso e di violenza, di bevute e battutacce da caserma. Henrik, da solo, non sarebbe in grado di portare avanti un discorso così spudoratamente provocatorio e irriguardoso: il suo complesso di inferiorità lo fa sentire diverso ed indifeso, isolato ed inerme nei confronti di un mondo di adulti che, da un lato, sembrano stigmatizzare questo suo visibile disagio, dall’altro dimostrano di avere altro a cui pensare, e di non voler badare a lui più di tanto. Sceneggiatura e regia assecondano, con movimenti schematici e tentennanti, questa mancanza di incisività del personaggio: una superficie liscia ed incolore sulla quale lo sguardo scivola, mentre cerca invano uno spunto per cominciare a tracciare il contorno di un’individualità che, da parte sua, continua a rintanarsi nella propria pavida sfuggevolezza. Il cinema nordico ama, per tradizione, girare intorno all’indeterminatezza, che pure, a suo modo, si ingegna per farsi dramma. Henrik prova, come può, ad esistere, manifestando le sue acerbe emozioni, mentre è impegnato a barcamenarsi tra l’esigenza di farsi accettare, rispettando le buone maniere, ed il desiderio di difendersi, ostentando una finta sicurezza. Anche l’indistinto può essere volgarmente sbiadito e indecoroso, come la goliardia fuori tempo massimo dei compari di Henrik; può essere l’abbozzo di un fallimento in corso, che, a tratti, si fa avanti per ritentare la sorte, e poi ritrae tristemente la mano. Almost Man è il disegno confuso di una personalità patologica, immersa in un contesto debole e multiforme, in cui le è consentito di reagire oppure di lasciarsi andare, senza che ciò intacchi il clima di generale oblio e indifferenza. Un mondo di gommapiuma nel quale il realismo fatica ad usare il suo linguaggio duro e tagliente, abbandonandosi ad una deprimente e dispersiva neutralità. Un cedimento che risulta perdente nella forma, ma vincente nella sostanza.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta