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The German Doctor

Regia di Lucía Puenzo vedi scheda film

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La recensione su The German Doctor

di Kurtisonic
6 stelle

L'ultimo lavoro della regista scrittrice Lucia Puenzo ha molti punti di contatto con il suo interessante esordio del 2007, l'apprezzato XXY. Il rapporto con il corpo, misterioso e imperfetto, i tormenti dell'adolescenza come età difficile e imperscrutabile dal mondo adulto, il forte richiamo alla terra e alla sua natura più selvaggia, il fascino e la mostruosità della scienza e dell'uso sconsiderato che ne può fare l'uomo. Sfuggito al processo di Norimberga, il medico nazista del terzo reich, Joseph Mengele, si rifugia in Argentina spacciandosi per medico e ricercatore affermato in patria, con la copertura di una rete di altri esuli tedeschi sperimenta le sue teorie criminali sulle modifiche genetiche da apportare alla razza umana realizzate nei lager, con la famiglia della dodicenne Lilith. Pur denotando un buon ritmo narrativo che mantiene alto l'interesse per la vicenda, The german doctor denuncia una certa incompletezza e rimane sostanzialmente irrisolto. La regista nel tentativo di romanzare la realtà rischia, non sottolineando con più dettagli e precisione storica, di lasciare troppo indefinita la figura del dottore, il cui ambiguo comportamento con la famiglia di Lilith può risultare comprensibile e  riconducilbile nell'immaginario collettivo ad un novello Barbablù o al pifferio magico dei Fratelli Grimm, o peggio ad un serial killer ante litteram. Risulta così poco funzionale anche allo spettatore medio che, non illudiamoci, non è più troppo attrezzato alla comprensione preliminare del testo, la sua mancanza di conoscenza storica aiutata dai processi di rimozione viene ulteriormente aiutata nè da immagini che non chiariscono troppo, nè dai disegni oscuri degli appunti del mostruoso doctor che si riducono ad elemento di indagine puramente estetica. Il film si divide inderogabilmente fra il latente retroscena storico che mette in un angolo il personaggio Mengele, e lascia al centro la protagonista più debole, la figura della ragazzina con i suoi legami familiari. Ancora un rimando al film d'esordio, la madre di Lilith incarna uno spirito femminile moderno, aperto e disinvolto, aderisce alle indicazioni del doctor, si potrebbe definire politicamente il soggetto che fa la lotta dall'interno per cambiare le cose (rischiando di non vederle con la necessaria lucidità), per lei incinta di due gemelli la verità potrebbe essere ancora più dolorosa. La figura antagonista al malvagio nazista è quella del padre dell'adolescente, positivo come in XXY, animato da uno spirito meta propositivo, utilizzato dalla regista per completare coraggiosamente pulsioni e desideri intimi dell'animo umano che se portati fuori controllo possono fare deragliare la mente. Il confine fra il bene e il male non è difficilmente valicabile, L. Puenzo  omaggia la storia del cinema e denuncia la mostruosità della storia dell'uomo. Attraverso la passione del padre di Lilith, costruire modelli di bambole perfette e uniche,  la regista percorre a ritroso il cammino del cinema che ha dovuto amalgamare nel suo linguaggio artificiosità e immaginazione rappresentativa, mentre l'uomo produceva strumenti materiali di potere, di manipolazione, di supremazia. Dal robot artigianale di Hugo Cabret alla Bambola del diavolo di Browning, si arriva al cinema delle origini, a Lubitsch con la sua Bambola di carne (Die puppe, 1919), il cinema aveva previsto tutto ciò che l'uomo ha drammaticamente perpetrato. Infine Lilith, con il suo corpo acerbo e inespresso, troppo piccolo per l'età, troppo grande per non fare intuire il disegno di mercificazione del corpo umano, quello femminile in particolare, ambita preda di seducenti teorie propinatrici dell'immortabilità della carne, dell'inconsistenza del tempo, della riproducibilità assoluta e divinizzata della bellezza. Ecco che allora la regista introduce un altro personaggio fondamentale, non privo di imperfezioni ma dotato di un'estrema attenzione, Nora, la fotografa al servizio degli israeliani. Il suo fermo immagine, il suo fissaggio del tempo restituisce alla storia il suo primato, smaschera il male della sua banalità apparente. La ricchezza di tanti contenuti va a scapito di una certa mancanza di omogeneità del racconto che lascia solo trasparire  la sua anima segreta, cioè un grido di attenzione contro l'omologazione, l'immobilismo del pensiero, l'abbandono della memoria. E nell'ultima inquadratura lo spettatore se ne rende conto,  se lo sente addosso in un brevissimo fremito avvolgente che vorrebbe ricompattarne la lettura alla ricerca di un emozione che però resta troppo in profondità.

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