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The German Doctor

Regia di Lucía Puenzo vedi scheda film

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La recensione su The German Doctor

di EightAndHalf
6 stelle

The German Doctor funziona un po’ come Hannah Arendt di Margarethe von Trotta, sebbene in uno il nazista sia cattivo, nell’altro sia “banale”. Lo stile di regia non è tanto diverso, una siccità autoriale che fa il paio con la schiettezza ma non con uno stile. Niente di male, l’adesione ai fatti è totale, l’attenzione nei confronti dei personaggi resta salda per tutta la durata di entrambe le pellicole, e il messaggio non troppo didascalico arriva forte e chiaro. Film di “contenuti”, questi nuovi elaborati sui nazisti sfuggiti al processo di Norimberga, film ricchi di eventi – il primo – e di teorie – il secondo -, in entrambi i casi una riflessione a posteriori sugli orrori della guerra e su come va concepito il male. Le strade però, come è ovvio, sono diverse, come sono diverse le opinioni sull’alienazione totalitaria dei gerarchi, formalizzata dalla Arendt: alcuni d’accordo, alcuni in disaccordo, secondo una dialettica filosofica che questi film ripropongono e rimandano a diversissimi anni di distanza, in maniera tale da tenere acceso il dibattito sulla più terribile tragedia che abbia conosciuto il Novecento – e di tragedie ce ne sono state tante.

Il lavoro di Lucìa Puenzo sul Male è fin troppo invischiato, in diversi momenti, nella fatalità e nella premonizione. Il mostro nazista è insinuante, sornione, rispettoso delle convenzioni civili ma pressante come un parassita. La sua presenza, che desta un eversivo sorriso nella bambina protagonista e una fiducia un po’ irresponsabile da parte della madre della bambina, comporta uno scossone nella geometria dell’immagine, la regia di Lucìa Puenzo aderisce non solo ai fatti ma anche alla natura viscida e sottile di Mengele. Il maledettismo che circonda storicamente questa figura di uomo colpevole e perennemente in fuga, capace solo di “studiare” gli esseri umani e sempre pronto a definirsi come un artista che guarda i suoi soggetti, viene ripercorso dalla Puenzo in maniera un po’ pedante ma sinceramente interessata: mentre la bambina scopre i suoi primi sentimenti forti con un altro bambino, e mentre il padre matura sempre di più sfiducia nei confronti di Mengele (in misura inversamente proporzionale alla moglie), la tensione va crescendo e vuole insinuare dubbi e tarli che si alimentano nonostante sappiamo già come tutto va a finire, ma il film finisce per limitarsi a coinvolgere, senza destare né gioia né dolore magari tramite guizzi registici particolari (eccezion fatta per una certa carrellata irregolare che la Puenzo ripete due volte osservando il lago: si sposta sulla linea del movimento della bambina che corre verso la distesa d’acqua sorvolando un cespuglio e senza valicare un arco fatto dagli alberi). La parte più profonda, infatti, del suo sguardo va ricercata anche in quelle che si possono definire piccole cadute di stile: la produzione in serie delle bambole è una sorta di rielaborazione del sogno ariano nazista (un po’ come tutti gli studi genetici di Mengele), con Wakolda che è la bambola “più strana” perché è diversa. Non è tanto diverso il lavoro che Mengele fa alla bambina proponendosi di curarla da un leggero nanismo: conformare tutti a un ordine psicofisico precostituito. È sicuramente vero poi che Mengele continuò a fare esperimenti, rivelando in questo caso che il Male agisce imperterrito e non è davvero “banale” (magari è solo un fatto casuale, non si deve mai generalizzare, in questo caso è così), ma l’idea delle bambole tutte uguali però con un cuore è davvero un metafora che stroppia con la schiettezza suddetta dello sguardo della Puenzo, un dettaglio macroscopico evitabile che appesantisce la minestra e mostra troppo presto la corda. Inevitabilmente, oltretutto, dimezza la tensione, che comunque, in parte, sopravvive.

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