Regia di Lucía Puenzo vedi scheda film
Conosciamo abbastanza bene anche qui in Italia le qualità narrative e di messa in scena di Lucía Puenzo (figlia del premio Oscar Luis Puenzo) che con la sua opera prima XXY passata anche dal Rassegna Cinematografica di Taormina del 2007 (con la quale affrontava con passione, rigore e competenza un tema scottante come quello dell’ermafroditismo), si aggiudicò importanti riconoscimenti al Festival di Cannes dello stesso anno, fra i quali il prestigioso premio della Semaine de la critique.
Più complessa, articolata ed ambiziosa (ma anche meno risolta) la sua seconda fatica, El Niño pez anch’essa transitata da molti festival ma da noi arrivata solo in DVD (che sviluppava un intrigo ricco di mistero e denso di suggestioni sospeso fra magia e realismo, a partire da quell’umbratile “bambino” del titolo che vive sotto l’acqua, portatore di un’altra evidente - e simbologica - “mutazione”) ugualmente interessante ma confusa e non perfettamente messa a fuoco, che aveva fatto segnare un poco il passo al suo percorso artistico in divenire, proprio a causa del temerario e coraggioso azzardo di aver provato a traslare la ferrea meticolosità del suo esordio in un melodramma onirico e morboso (che si potrebbe definire quasi una specie di soap d’autore), epicentro violento ed esasperato di una “anomala” scelta sessuale alla ricerca di un libertà forse impossibile da raggiungere.
Era dunque attesa al varco per verificare meglio quale definitiva direzione avrebbe preso per davvero la regista, e se le impressioni positive del suo debutto potevano dirsi davvero confermate.
Per quel che mi riguarda, trovo che questa sua ultima fatica che in sintesi narra la storia di una famiglia argentina e del suo rapporto con un medico tedesco (che in effetti era Josef Mengele sotto mentite spoglie fuggito in Patagonia dall’Europa dopo la caduta del nazismo), sia a questo proposito decisamente rassicurante perché se non raggiunge ancora la straordinaria compattezza del suo debutto, riesce comunque a mantenerne intatta l’intransigente concretezza, affinando però nel contempo anche le nuove e stimolanti strategie narrative che aveva già sperimentato con la sua seconda prova che a questo punto può essere a buon diritto considerata come un embrione in fase formativa e di sviluppo di stile e di linguaggio, destinato poi ad approdare a un modo di fare cinema personale, intrigante e più maturo che la conferma non solo come una attenta e scrupolosa osservatrice di angoscianti anomalie cromosomiche, ma anche come una ancor più interessante conoscitrice del pianeta adolescenziale che occupa sempre il baricentro di ogni sua pellicola e dove è magistrale l’equilibrio narrativo e la pudica leggerezza con cui affronta questa spinosa realtà in movimento (anche ormonale).
Passato anch’esso da Cannes 2013 (nella sezione Un certain regard), con molta concretezza priva di cinismi e compiacimenti che avrebbero potuto rendere troppo patologico il risultato, il film nel confrontarsi con questa storia ambientata nel magnifico, aspro e desolatamente solitario paesaggio della Patagonia degli anni ’60, punta lo sguardo su una ragazzina nata prematura, affetta da un evidente ritardo nello sviluppo, che nel corso della narrazione si innamorerà di uno dei più grandi criminali di tutti i tempi.
Andando per ordine, è un racconto (l’origine è un libro scritto dalla stessa Puenzo che affianca alla sua attività di regista ance quella di scrittrice) che ha al centro una famiglia (padre, madre in cinta di due gemelli e tre figli fra cui appunto la giovane Lilith a cui accennavo sopra) che si sta trasferendo nelle vicinanze del lago Nahuel Huapi dove ha da poco ereditato un bell'albergo che vuole ristrutturare e riaprire al pubblico, e del loro incontro casuale con un medico tedesco di passaggio gentile e mite (in apparenza, poiché si tratta appunto di quel Mengele fuggito in Argentina sotto falso nome per sottrarsi alla cattura dei cacciatori di nazisti che avrebbe determinato la sua deportazione in Israele, dove era già stato condannato in contumacia alla pena capitale) con il quale si consoliderà lentamente un solido legame di amicizia.
Le mire del dottore sono ovviamente ben altre. E’ infatti interessato a questa famiglia che mostra tante attenzioni per la sua persona, al fine di poterla utilizzare per proseguire i suoi terribili “esperimenti genetici”. L’interesse maggiore è per quella ragazzina dodicenne prigioniera di un corpo che sembra non aver alcuna voglia di svilupparsi e di reagire agli stimoli di una pubertà che nei suoi compagni è già esplosa da tempo. Per poter perseguire il suo “disegno delittuoso”, millanteggiando l’esistenza di un percorso medico da lui stesso ideato e a suo dire già felicemente sperimentato in Germania con ottimi risultati, l’uomo intende sottoporla a infiltrazioni ormonali per curare le cause di quel disturbo “debilitante”, becero escamotage per fare autorizzare dai genitori pratiche altamente rischiose, finalizzate principalmente all’acquisizione di dati clinici a suffragio dei suoi studi criminogeni brutalmente interrotti dal crollo del Terzo Reich.
Mi fermo ovviamente qui per non scoprire troppo le carte, il che finirebbe per guastare l’interessato coinvolgimento del possibile, futuro spettatore che potrà aver voglia di approcciarsi alla pellicola quando verrà distribuita in sala, o incrociandola (magari anche casualmente) sul web.
Credo che sia infatti più importante sottolineare invece l’inquietante clima di ambigua acquiescenza che piano piano si sviluppa fra la famiglia e il “mistificatore”, dentro a un percorso che intende essere soprattutto un’accurata analisi che si trasforma alla fine, attraverso la messa a fuoco di percezioni alterate e rielaborazioni fantasiose delle cose, e riproducendo al tempo stesso gli inganni e le tensioni che si sviluppano – fra attrazione e repulsione – nei rapporti fra vittime e carnefici (anche quando i ruoli risultano in apparenza più sfumati come in questo caso), in una approfondita indagine che affronta problematiche abbastanza complesse come quelle dei turbamenti della personalità dovuti agli sviluppi ormonali comunque in corso, o che riguardano la convivenza quotidiana e silente con l’orrore qui osservata con un invidiabile ed equilibrato bilanciamento di visione delle cose.
Un racconto di formazione e tradimento insomma (che è anche una scrupolosa ricognizione delicata e attenta, sulla confusa enigmaticità del desiderio morboso che spesso nasce e prende forma nel tormentato passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza).
La Puenzo è infatti bravissima nel mettere in mostra rimorsi e solitudini e nel rifletterne i sospetti e le paure che da questi derivano attraverso un “viaggio” tutto interiore nelle turbolenze giovanili che come ne El Niño pez (anch’esso tratto da un suo romanzo) rimane in bilico fra realismo e suggestione. Lo fa infatti questa volta, con molta più coerenza di quanto non avvenisse invece nella sua precedente opera, ed è di conseguenza particolarmente efficace nel denunciare il fascino contaminante (spesso perverso) dell’ideologia “malata” soprattutto in presenza di una fragile identità ancora in costruzione che è assetata di prove, di “miti” e di conferme (anche affettive) alle prese com’è con il sofferto, necessario e temuto abbandono dei giochi infantili decisamente più innocui di quelli da affrontare nel futuro. La Puenzo può contare infatti su uno stile che piega al suo volere usando molti campi medi e altrettanti primi piani capace di mostrare (e stigmatizzare) proprio attraverso la forma visiva, non solo correità e pregiudizi, ma anche e soprattutto quella che di solito viene forse impropriamente chiamata “la banalità del male” perché di fatto il male non è mai banale, ma il frutto di una deliberata scelta che è (purtroppo) “convinzione profonda e radicata”.
La costruzione narrativa per come è articolata, sembra poi volersi in qualche modo ispirare nella sua straordinaria rilevanza, ai sofferti percorsi narrativi delle più disturbanti pellicole di Polanski, nel penetrare le radici nascoste delle colpe e nel non potersi poi sottrarsi a misurarsi con il persistente dolore che ne deriva (il pudore quasi straziato con cui la pellicola con intelligente maturità prova a confrontarsi con le motivazioni che stanno alla base di questa vera e propria follia genetica e scientifica e dove Mengele è letto e rappresentato come una figura “tragica” fagocitata dal suo infame delirio (anche di onnipotenza) che lo rende refrattario all’accettazione del declino.
La Puenzo con questo suo cinema elementare ed essenziale al tempo stesso ma fortemente segnato da una ricerca quasi ossessiva e raffinata della perfezione delle forme (vedi il contrasto cromatico tra la rasserenante e rassicurante luminosità del paesaggio e i lati oscuri della cattiva coscienza di alcuni personaggi che si muovono al suo interno), narra incomprensioni e fragilità familiari mediate da uno sguardo freddo, quasi chirurgico e molto distaccato (lontano insomma dalla materia scottante di cui si nutre) ben sorretto da una interessante struttura circolare che insegue le regole e le linee del giallo psicologico. Riesce in questo modo a coniugare efficacemente l’isolamento e il dramma con la denuncia politica che porta in primo piano anche la connivenza dei governi con i criminali di guerra passati, presenti e (forse) anche futuri.
Sceglie insomma una lettura minimalista e introspettiva della “storia ufficiale”, pensata, ricostruita e riproposta, evidenziando attraverso la manipolazione della passione “attrattiva” tra innocenza e mistificazione, omissioni, delitti e responsabilità che la confermano essere la più attendibile e attenta osservatrice delle variazioni dei corpi (e dei pensieri) sia nei casi “disfunzionali” più estremi (XXY) che in quelli che invece possono essere valutati come movimenti evolutivi legati al passaggio cruciale dalla pubertà all’età adulta con tutto ciò che ne consegue in termini di identificazione e accettazione. Quello che colpisce di più insomma , è proprio la capacità che ha di non fare solo una sterile ricognizione del pianeta adolescenziale, ma di trasmutare il suo lavoro quasi in una “missione” (magistrale per l’equilibrio narrativo e la pudica leggerezza di tocco).
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