Regia di Joshua Michael Stern vedi scheda film
Ritratto dell’imprenditore quando era un ragazzo: prima a piedi nudi nel parco (dell’università, mollata dopo un semestre), poi con le mani nell’orto (di casa, abitata discontinuamente), passando dal celebre garage dei genitori dove tutto ha avuto inizio. Dalla Atari alla Apple, battezzata nel nome del frutto paradisiaco e del desiderio di eccellere (sull’elenco del telefono avrebbe preceduto, seppur di poche consonanti, la succitata società per cui Jobs lavorava precedentemente), la storia del genio è un one man show affidato al passionale mimetismo di Ashton Kutcher su partitura diligente dello sceneggiatore esordiente Matt Whiteley. Che si fa aiutare dal terzo concerto brandeburghese di Bach come dal folk sessantesco degli Animals, per allacciare le emozioni ai corridoi lattescenti percorsi a falcate in ralenti, con quell’enfasi che caratterizza ogni dialogo: Jobs è un film declamato, sostituisce all’ipnosi della velocità (The Social Network di Fincher su quell’altro portento di Zuckerberg, una mitragliata allucinogena di parole: tutte andate a segno) la solennità del discorso (e anche le urla del protagonista in solitaria, contro i collaboratori, verso la donna che aspetta sua figlia, paiono concessioni agli umori “di massima” dell’umanità più che incursioni nell’uomo reale). Il regista ama il suo personaggio, vivo negli occhietti iperattivi di Kutcher che riflettono con partecipazione un sole indiano come una sequenza di lettere e cifre, ma lo inserisce in un manifesto-compendio che mira ai fan della mela senza offrirci nuovi morsi.
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