Regia di Marco Risi vedi scheda film
Con Cha Cha Cha Marco Risi conferma, nonostante il pensiero di parrucconi e produttori, che il genere resta il miglior cinema possibile. La denuncia civile se raccontata senza le trame e l’immaginario del genere – poliziesco, noir, horror, porno, western, etc. – resta databile; il dramma famigliare se raccontato con la finezza d’autore, resta circoscritto; i labirinti della mente, le questioni esistenziali, le fitte maglie dell’essere e di tutto l’universo emotivo a noi precluso, senza la forza della rappresentazione immaginifica, saranno sempre poco sondabili.
Il noir notturno e a tratti abbagliante che Marco Risi – non estraneo al genere, quindi in linea continua con una certa coerenza artistica e poetica e anche politica – firma con una certa classe autoriale, dimostra come la modulazione narrativa dell’indagine impossibile, con figure archetipali come l’occhio privato bello e tenebroso, solitario quanto umano, piuttosto che la femme fatale o il poliziotto nemesi del protagonista e così via, siano azzeccati per raccontare la discesa a spirale di un paese nel magma del caos organizzato. Viviamo in tempi di crisi, certo, e tutto si acuisce, eppure questa storia disperata anche se silenziosa, è la stessa di decenni fa. Una storia perpetua del bel paese che non ne vuole sapere di sparire dal nostro immaginario, tanto lo impregna e modella di anno in anno, addizionando facce, forme, nomi, ruoli, organizzazioni e puttane, sempre pronti a delinquere per fame di potere.
L’avvocato Argento, è un po’ l’avvocato del diavolo, e il diavolo in questione è lo Stato, lo stesso Stato di cui parla il corrotto commissario Torre interpretato da Claudio Amendola finalmente tornato nei panni dell’attore che conosciamo e apprezziamo – e smessi, si spera, quelli del conduttore, dei Cesaroni e dei telefonini. Uno Stato informe, notturno come la Roma che lo ospita, pieno di segreti e di vie secondarie a noi precluse con cui riesce sempre a modellare la realtà e la verità delle cose a suo piacere e comando, lasciandoci in un vicolo buio, oppure morti schiacciati tra le lamiere contorte di una piccola macchinetta.
È così infatti che muore l’oggetto catalizzatore intorno a cui ruota l’intera vicenda. È Tommy, il giovane Jan Tarnovskiy, figlio della diva Herzigova, sorvegliato a distanza dal private eye Luca Argentero su commissione della madre. Purtroppo al ragazzino succede di immischiarsi in qualcosa di più grosso di lui, un Davide impotente contro un Golia invincibile, e trova la morte dentro la sua piccola macchinetta per minorenni, travolto da un SUV misterioso che invece di frenare accelera.
Vittima sacrificale da immolare alla causa di un sogno piduista, il povero Tommy è lo spettro dell’incapacità palese degli adulti di oggi, padri, madri, educatori, politici, di essere responsabili. Hanno fallito la sfida più grande: creare un vero paese civile e libero, dove tutto funziona alla luce del sole, dove ognuno può essere se stesso e vivere nella legalità perché non gli è precluso il diritto alla felicità. Questo scenario purtroppo non è al nostro orizzonte, e il risultato è un ragazzino morto stritolato nel cartoccio della sua piccola macchinetta.
Tommy torna e ritorna nelle parole, nei pensieri e nei ricordi dei protagonisti. Nella ossessiva ricerca della verità, oltre a scendere negli scantinati bui dei poteri indicibili, il detective Argento come altri personaggi, scoprono le ombre di se stessi, i vuoti abissali dell’esistere, incolmabili crateri poco prima occupati dalla bella e solare figura di un ragazzetto che voleva vivere e vincere contro tutti. Senza il suo giovane cadavere, non si sarebbe innescata la discesa infernale nelle viscere di un potere che non deve mai smettere di spaventarci.
Tecnicamente perfetto nei tempi, nelle locations, nelle architetture di esterni e interni che sembrano rappresentare nelle loro forme gli stati emotivi di un intero paese, minimalisti e sterili da un lato, notturni e bui dall’altro, il film è calibrato per essere seguito senza problemi, fluidamente, grazie anche a una fattura che non sembra di casa nel nostro cinema.
Una delle forze del film è la proprio la scelta degli ambienti, cara a tutto il genere, il noir o il poliziesco urbano. Senza la città e la sua periferia non esisterebbe il tormento dell’uomo moderno, tipizzato dalla figura dell’investigatore privato, personaggio simbolo di un’epoca di crisi e di continua indagine e introspezione. Come Dante, anche il private eye vaga inquieto per i labirinti della polis-inferno e si incontra con vari personaggi, ognuno con il suo fardello, ognuno con la sua pena. Figli di un Paese e di un’Epoca puttana, queste anime prave sono caratteri sociali illuminanti, e se da un lato compiono bene il loro ruolo di elementi del racconto, dall’altro rappresentano ancora meglio la deriva esistenzialista nata dallo sconforto di una bussola smarrita, sia socialmente, che politicamente, economicamente e culturalmente.
Luca Argentero non se la cava male. Pur mancandogli ancora, a mio parere, una modulazione vocale più spontanea e genuina, sta dimostrando di film in film di avere carattere e intelligenza. Coraggioso protagonista di un nudo frontale, gioca a citare il Viggo Mortensen di La Promessa dell’Assassino (2007) lottando completamente nudo contro i tre sicari che gli han fatto visita per farlo tacere. Gli unici due corpi nudi della pellicola, almeno quelli maschili, sono quello del detective Argentero e quello morto del giovane Tommy sul lettino dell’obitorio. Un parallelo che unisce i vivi e i morti, e forse gli unici due personaggi puri della pellicola, animati dalla voglia di verità, tanto che il loro nudo sa di catartica innocenza agli occhi di un dio/stato/potere fin troppo cattivo e marziale.
Cha Cha Cha è un film perfetto, che nella sua indagine sociale e politica mette a confronto il “nessuno”, l’uomo della strada, il cittadino inerme che si ribella, con la sua nemesi autoritaria e involgarita, il potere arci-cattivo, lo Stato antagonista, il sistema poliziesco con cui continuare la politica. Con l’inquietante avvocato Argento interpretato da Pippo Delbono, ci tornano alla mente film come Il Muro di Gomma (1991) dello stesso Risi, Il Divo (2008) e quel Romanzo Criminale (2005) in cui un uomo, arroccato nel suo studio, avvolto dalle ombre delle luci fioche, tramava il destino del Paese, senza nome, senza una vita, personificazione di un male italiano mai morto. Quando Amendola infine urla “Io sono lo Stato”, oltre ai brividi che sa mettere, il gioco è fatto, il cerchio è chiuso, e all’uomo solo e indagatore rappresentato da Argentero non resta che lottare, nudo, acciaccato, ferito, mezzo sordo, solitario y final. Ma la cosa che più pesa a fine film, quasi senza più rendersene conto, paradossalmente più pesante degli intrighi tra Stato e poteri occulti e reazionari, è una sola, forse la verità più grande che fa dimenticare tutto il resto: che è morto un ragazzino di sedici anni e ora non c’è più.
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