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Two Mothers

Regia di Anne Fontaine vedi scheda film

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La recensione su Two Mothers

di scapigliato
4 stelle

La questione è sempre la stessa: è più scabroso il contenuto o la forma? Di Two Mothers purtroppo è scabrosa solo l’idea. Il film di Anne Fontaine mette in scena un racconto della Lessing, Le Nonne del 2003, dove due donne, cresciute insieme come sorelle, s’innamorano una del figlio dell’altra.

Il contenuto può essere scabroso per i lefebvriani, ma è all’ordine del giorno che le donne di oggi, dette “cougar”, puma concolor, abbiano preso a cuore la sorte di giovani manzi scapestrati – poi mi si dovrebbe spiegare cosa può dare un ragazzo di vent’anni, quando esperienza e virilità si acquistano col tempo. Dove sarebbe lo scandalo se questa pratica felina è ormai nota? E questo nel contenuto, ma anche nella forma, a parte il culo di Xavier Samuel e quello molto più interessante di Robin Wright non-più-Penn, non vediamo nulla di più, non assistiamo a nessuna copula degna di attenzione. Se poi aggiungiamo che il pathos del melodramma è ridicolo non abbiamo neppure l’occasione di lodarne l’afflato romantico.

È un film discontinuo la prova oltreoceanica dell’autrice francese di Nathalie (2003), poi diventato anche Chloe – Tra Seduzione e Inganno (2009) con Amanda Seyfried, perché non riesce a centrare il suo obiettivo, nel caso ne avesse mai avuto uno. Possiede ugualmente alcune caratteristiche interessanti.

Innanzitutto, di una storia che vede due donne di quasi cinquant’anni, anche se in splendida ed invidiabile forma – Robin Wright nuda e senza trucco batte 10 a 0 tutte le Lindsay Lohan e le Selene Gomez o le Vanesse Hudgens che tanto vanno oggi – innamorarsi una del figlio dell’altra – entrambi, guarda caso gnoccoloni da copertina – e non prevedere audaci scene di nudo e di sesso, è già un paradosso. Piuttosto, che si racconti una storia come il pranzo di Babette – senza offenderne gli estimatori. Ma se si vuole raccontare di una libido scatenata, contro la morale comune e magari prenderla come pietra di paragone per discutere e analizzare il ruolo della donna oggi, piuttosto che il tema della sessualità promiscua, che lo si faccia con cognizione di causa portando rispetto per l’intelligenza altrui e prevedendo scene di una certa forza visiva, totalmente assenti nella pellicola della Fontaine.

Inoltre, se escludiamo Robin Wright, il resto del cast è purtroppo penoso. Naomi Watts, che perde metà del suo fascino senza l’adeguato trucco, è patetica e fin troppo sopra le righe per dare credibilità al personaggio, così come Xavier Samuel, perfettamente in parte, corpo da reato, scelta azzeccatissima, solo gigioneggia con gravità diventando poco alla volta la parodia australiana di una telenovela argentina – quando confessa a sua madre di amarne l’amica mette i brividi e ci troviamo di colpo a Buenos Aires. C’è da dire però che ha degli sprazzi di spontaneità tale che si fa rivalutare facilmente, soprattutto all’inizio del film quando ancora non siamo sprofondati nel mélo e la sua sembra essere una recitazione sobria e misurata, come quando di notte mentre dorme a casa dell’amico e la madre di lui, Robin Wright, gli porta via dalle mani il vecchio album di famiglia, l’attore si alza a sedere sul letto nella penombra, si gira a torso nudo e chiama per nome la donna per poi dirle solo “niente” e ricadere sdraiato, non so spiegarlo ma questo passaggio l’ho trovato perfetto. Mentre invece è imperfetto James Frecheville, mascellone moro australiano senza spessore, potevano fare una scelta migliore.

L’altro guaio del film, a parte l’affettazione dei personaggi, è la sceneggiatura, soprattutto gli improbabili dialoghi, di cui si è occupato lo stesso sceneggiatore Christopher Hampton, qui irriconoscibile. Se proprio volessimo vedere l’improbabilità dei dialoghi e di tutta la modulazione narrativa come una scelta stilistica precisa che fa della franchezza infantile la cifra del coinvolgimento sentimentale di cui il film tratta, forse potremmo dire che è una buona sceneggiatura e i dialoghi sono stilisticamente in sintonia con il contenuto. Il problema è che il film va in tutt’altre direzioni. La pellicola vuole il dramma, ma al tempo stesso vuole condividere la scelta, legittima, di due donne che sfidano l’etichetta morale e sfidano pure se stesse e la loro amicizia, che rasenta il lesbismo o che forse è la criptografia di un amore lesbico mai accettato – speculare nelle dinamiche omoerotiche della coppia maschile come gelosie, rivalse, sfide e slanci di perdono. E per sostenere questa scelta non convenzionale il film edulcora la storia e la mimetizza a una qualunque altra storia d’amore pretendendo di normalizzare questo amore proibito che, se è proibito dovrebbe essere rappresentato secondo canoni non tradizionali, non usuali e non consuetudinari. In Two Mothers invece, non c’è nulla di sconvolgente e il racconto si sgrana come un rosario, viaggiando antiorario rispetto la pulsione frenetica che va raccontando.

Si salva giusto la regia. Anne Fontaine racconta questi corpi in calore insinuandosi nei loro dettagli. Anche se fugaci, le pose di nudo casto sono ugualmente seducenti. La fotografia scelta da Christophe Beaucarne rende i luoghi, gli oggetti e i suddetti corpi un tutt’uno, baciati da una luce paradisiaca, quasi a fare da contraltare all’infernalità della passione lasciva. È una fotografia liquida, dove il mare diventa il materiale di partenza per pensare e realizzare tutto il resto, dai personaggi agli ambienti domestici. È un film fascinoso Two Mothers, che seduce anche grazie alla saturazione marina dei colori, rendendo tutto semplice e pastello, come dovrebbe essere ogni passione. Naturale.

Purtroppo resta un film castrato, che vuol parlare del sesso senza mostrarlo, e nel caso volesse invece puntare sul sentimento giocherebbe male le sue carte provocando lo spettatore senza poi accontentarne il piacere voyeuristico, quindi sterilizzando tutta l’intenzionalità del film stesso. La liquidità della fotografia sembra echeggiare anche nel sistema dei personaggi – a volte mi sono scoperto chiedermi chi è la madre di chi e viceversa – e rende tutto abbastanza confuso, forse volutamente confuso. Forse si voleva suggerire una dimensione onirica e non ben definita della storia e delle pulsioni che racconta, oppure si voleva rappresentare un’analisi freudiana delle pulsioni sessuali delle donne di mezza età, tant’è che una vive il suo rapporto con serenità mentre l’altra fatica ad accettarlo, lo stesso poi viene rigirato alla coppia maschile, uno vive il suo rapporto gerontofilo con trasporto e amore, l’altro invece come sfida e trasgressione, separando un’unica inquieta anima in più personaggi.

Forse il film voleva essere tutte queste cose e tante altre, ma a parte una fotografia e una regia liquide che catturano i corpi, le loro forme e gli spazi dove si muovono con un certo erotismo materico, non dice nient’altro, non mostra ciò che si dovrebbe mostrare – anche se il culo della Wright vale tutto il biglietto – e chiude la parabola trasgressiva con una borghese ritrattazione di tutto, beatificando la famiglia tradizionale e perpetuando il meschino gioco dell’etichetta vivendo nella menzogna.

Se il racconto del Premio Nobel Lessing può essere una parabola esemplare sulle passioni, il film non riesce comunque a staccarsi di dosso la sua imperfezione borghese, destinando i personaggi all’oblio senza che la storia scalfisca l’immaginario erotico. Sterile.

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