Regia di Enrico Maria Artale vedi scheda film
Bel film. Mai banale. Non ci sono segni di pressapochismo italiano o eredità televisive. Buon ritmo e ottime pause. Belle idee visive e narrative. Attori che sanno recitare e usare la voce. Lorenzo Richelmy da applausi.
La critica lo trova un film banale, ma forse noi troviamo banale la critica quando non sa più a cosa aggrapparsi. Che male c’è a fare un film che non ha nulla di italiano nella forma? Fotografia, montaggio, regia, recitazione, tutto dieci volte più professionale del 90% dei film di casa nostra. Che male c’è nell’allenamento anticonvenzionale alla Rocky? Perché gli americani possono spettacolarizzare la narrazione e noi italiani come degli idioti a filmare la prosaicità, la banalità e l’artificio? Il cinema è narrazione per immagini. Le immagini sono rappresentazione. La rappresentazione è sintesi, è simbolo.
Il film di Enrico Maria Artale a molti potrà sembrare qualcosa di già visto: una storia di lotta marginalista e di riscossa attraverso lo sport; un rapporto antagonistico tra i due protagonisti che diventa umano sul finale; una lezione sportiva che è anche una lezione civile. Potrà sembrare tutto, ma non sarà mai un film banale. Anche la love story tra il protagonista e la figlia dell’allenatore, secondaria nell’economia della vicenda, non viene mai banalizzata dalla fretta o dal plot principale: è sanguigna, vera, palpabile.
Le simbologie – il toro, i cavalli, la fisicità di Lorenzo Richelmy, la periferia, i prati, la campagna, la squadra, gli spogliatoi, le docce, i compagni nudi, le risse, le spiate, il locus amoenus, le architetture di riformatorio, casa di accoglienza, cascina, campo sportivo e stadio – tendono tutte verso la narratività dell’immagine. Non sono orpelli, non sono accessori. Funzionano da elementi narrativi che danno al film la sua bellezza e la sua evocazione. Il terzo tempo non è databile. Fra vent’anni avrà sempre qualcosa da dire.
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