Regia di Enrico Maria Artale vedi scheda film
Ci sono film che nascono perdenti. Eppure hanno tanta voglia di vincere. Questo ce la mette proprio tutta. Come il suo protagonista, Samuel, un ragazzo appena uscito dal riformatorio, il quale, durante il periodo di semilibertà, viene affidato a Vincenzo, un assistente sociale che è anche allenatore di una squadra di rugby. Lo sport come riscatto sociale è un tema classico, consolidato, basato su una metafora che può suonare trita: il debole e sfortunato, grazie alla determinazione e all’abitudine a combattere, riesce alla fine a diventare il più forte, il migliore, riprendendo in mano il proprio destino. Ma forse di questa fantastica possibilità non si parla mai abbastanza. È un tasto sul quale si può continuare a battere, senza timore di stancare, perché l’effetto è sempre rassicurante, e lo è in una maniera che piace alle anime semplici. La storia assume, soprattutto nell’impennata conclusiva, l’aspetto di una favola, in cui i sentimenti sono contrastati ed i nemici potenti, però gli errori si perdonano sempre e le difficoltà sono destinate a sciogliersi, per incanto, come neve al sole. Questa è anzitutto una storia giovane, calata nell’attuale realtà del disagio generazionale, in cui le trasognate incertezze dei figli si specchiano nel senso di fallimento dei genitori, nella loro sfiducia nel futuro, solo momentaneamente stemperata da un illusorio beneficio del dubbio. Stavolta, quello che maggiormente crede è proprio il più sfortunato e malvisto, quel piccolo delinquente rimasto solo al mondo ed apparentemente privo di risorse, disadattato e svogliato, bloccato dalla negatività. Paradossalmente, con un miracoloso guizzo finale, sarà proprio lui a sfoderare l’energia necessaria a rimontare lo svantaggio e rimettere le cose al loro posto. Il gioco dell’ottimismo è una pratica salutare, ma ha il difetto di non riservare sorprese, neanche in questo caso, nonostante gli sforzi compiuti dall’autore Enrico Maria Artale per farne un oggetto di studio. I momenti più drammatici appaiono scrupolosamente scanditi come la sgranatura temporale di un’azione ripresa al rallentatore; tuttavia lo sviluppo di questo film, benché riproduca lo sguardo di un osservatore attento ed appassionato, resta confinato nella sua vita da mediano, all’interno di una provincia italiana troppo anonima per sembrare reale. Le velate pretese di minimalismo e rarefazione conducono, più che verso l’universalità del discorso, verso una convenzionale genericità che sa di disimpegno narrativo, e fa mancare allo spettatore l’emozione letteraria di assistere ad una vicenda che può capitare ovunque, e forse a tutti, eppure è la vicenda di alcune persone particolari. La narrazione, pur essendo precisa sul piano dell’elaborazione psicologica degli eventi, è carente di dettagli al contorno, quei dati che magari non sono funzionali al contenuto del messaggio morale, però risultano indispensabili al fine di creare un contesto che funga da supporto all’immaginazione. Il terzo tempo ci esorta a non arrenderci mai, né all’evidenza né all’inevitabilità, ma qualche parola in più ci aiuterebbe a capire meglio cosa ciò significhi davvero.
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