Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film
Non si sa mai cosa aspettarsi da Steven Soderbergh, uomo di cinema incline alla sorpresa, non sempre positiva come in questo caso quando dopo aver elargito più di un colpo di scena e cambiato sideralmente il fulcro, s’incanala in un tunnel assai meno originale, seppur gestito con classe.
Quando Martin (Channing Tatum) torna in libertà ritrova sua moglie Emily (Rooney Mara) che per anni ha atteso per poterlo riabbracciare, ma presto la ragazza accusa i disturbi di una forte depressione rischiando la vita e finendo in cura dal dottor Jonathan Banks (Jude Law).
La sua situazione degenera nel sangue e la credibilità del dottor Banks viene messa alla berlina rovinandogli la vita tanto da spingerlo a capire cosa ci sia dietro ai fatti arrivando a scoprire verità nascoste difficili da portare a galla.
Steven Soderbergh continua a spiazzare, questo avviene nel bene e nel male, realizza un film con alcuni punti di contatto col suo precedente “Contagion” (2011), a partire da una freddezza generale che ben si addice al panorama che ricrea.
Un insieme spaccato a metà dopo una quarantina di minuti; fin lì sembra un’analitica ed inquietante battaglia contro gli effetti delle pillole, un popolo che ne è schiavo (“in Europa vengono usate per curarsi negli Stati Uniti per stare meglio”), pastiglie che curano gli effetti di altre pastiglie, un personaggio, Emily, che sembra annientato, la pubblicità presentata come morbo (“nella pubblicità fanno vedere persone felici dopo aver usato il farmaco, come può non funzionare?”).
Poi un omicidio e tutto cambia, ci si ritrova in breve tempo nel bel mezzo di un thriller frutto di chi la lezione l’ha studiata per bene (e non è cosa da tutti, anzi), il baricentro si sposta da Emily a Jonathan che si ritrova solo contro tutti e che grazie a qualche indizio riesce a far girare la ruota.
Mentre la vicenda progredisce viene naturale domandarsi dove andrà a finire ed in un certo senso il regista stupisce ancora visto che si appiattisce su di un canovaccio che non prevede più una via di fuga, ma la vittoria della giustizia e l’oblio per chi ha errato.
Il meccanismo regge, pur scricchiolando (a volte anche in modo evidente), rimane apprezzabile la meccanicità dell’evoluzione ed il resto lo fanno gli interpreti.
Ritroviamo nuovamente Jude Law in una battaglia solitaria, così com’era successo in “Contagion”, Rooney Mara conferma la capacità di mostrare un’indole destabilizzata (buonissima interprete per ruoli scomodi), Channing Tatum non ha molto tempo, ma figura in un ruolo maturo, anche Catherina Zeta-Jones, ritrovando il regista, ha un altro ruolo forte, ma laddove in “Traffic” (2000) aveva connotati di gran forza d’animo, questa volta non vi è alcuna sfumatura positiva.
Un’opera che cambia pelle più volte, che rovescia e scoperchia ruoli e situazioni, non sempre forse nel modo migliore, ma nonostante tutto il messaggio della prima parte rimane vivo (se dietro c’è un imbroglio, di certo le parole che si spendono attorno sono sincere) ed il resto ha una consecutio che pur barcollando non prevede tempi morti e soprattutto mostra tanta tempra.
Imperfetto, ma con stile e cognizione di causa.
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