Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film
Dopo la pandemia di Contagion (2011) Steven Soderbergh, prima del ritiro dalle scene, affronta l’annoso problema della dipendenza dai farmaci antidepressivi e del loro abuso. Consumo planetario, anche in questo caso una pandemia almeno nei paesi industrializzati e dei suoi borghesi esponenti che utilizzano la pillolina dal nome fantasioso ed evocativo, quale che sia, Ablixa in questo film, come portale verso la felicità chimica .
Un punto di luce nelle tenebre del non avere abbastanza o dell’avere perdendo contemporaneamente la percezione dell’essere, per parafrasare Fromm. Ovvero , l’uomo si definisce da ciò che ha e da ciò che rappresenta nella società. Effetti collaterali a parte. A parte gli effetti collaterali di produrre vagonate di soldi per le case farmaceutiche.
Bello. Peccato che il tema non c’entri nulla con il film. O venga sfiorato solo per donare un’allure di impegno sociale ad un superclassico thriller medico dai risvolti psicologici. O psichiatrici.
Soderbergh e il suo cinema automatico, freddo quanto convenzionale e mai portato alle estreme conseguenze, sembra fatto apposta per rappresentare la storia di Emily Taylor, una spigolosa Rooney Mara che non lesina mai sulle priorie grazie desnude mostrate con sospetta generosità. Depressa cronica , sotto l’influsso di un nuovo farmaco antidepressivo prescritto dal suo psichiatra, Dott. Jonathan Banks (Jude Law) uccide il marito Martin Taylor , un ingombrante Channing Tatum , ex ricco, uscito di galera per insider trading e desideroso di rientrare nel giro che conta. I soldi.
Insider trading. Truffe. Aleggia odor di Madoff . Ma neppure questo è il tema sviscerato da Soderbergh.
Il primo tempo passa tra la costruzione dell’intreccio, in interni dove echeggiano le eco di verbosi contrasti tra attori, tentativi di suicidio e costruzioni dell’immagine con depistaggio. In più di un’occasione la scritta EXIT campeggia nei pressi delle derive psicologiche della protagonista.
Si sospetta il dramma psicofarmacologico di Emily, un trauma forse che quando la scritta compare, chissà, provoca il tilt di un neuro recettore (si comincia a pensare in termini medici ad un certo punto). Allora sarà allarme nazionale, ci si aspetta un colpo di scena su scala mondiale.
No. Neppure questo .
Cos' è allora Effetti Collaterali? Una truffa. Di nome e di fatto. Un piccolo, supponente film dalla zoppicante sceneggiatura di Scott Z. Burns già autore di Contagion e del quale trasferisce i difetti anche in questo film che discende nella banalità del thriller hollywoodiano, stanco, trito, portatore insano di trucchetti di sceneggiatura meccanici e prevedibili. Catherine Zeta Jones , la bonazza che rivaleggia con il sempre stupito Jude Law, è irricevibile come psichiatra. Secondo i canoni di Hollywood per rivestire da intellettuale una che recita con le boccucce e cosce, alla faccia del Metodo Stanislavskij, basta metterle un paio di occhiali. E così viene fatto. Un po’ come quando nel cinema porno una sfatta quarantenne per interpretare (!) una piccante adolescente sbarazzina si fa i codini ai capelli.
La Zeta Jones è il perno dell’inghippo, talmente inverosimile che viene voglia di telefonare alla Consob. Ma non è uno spoiler, ce l’ha scritto in faccia, insieme a tante altre cose, fin dalla prima apparizione.
L’inghippo.
A parlarne si rischia di svelare il colpo di scena, che colpo non è per uno spettatore avvezzo alle dinamiche dei thriller, e di scena nemmeno a parlarne visto il pedante accompagnamento verso la soluzione dall’immancabile, canonico, spiegone finale che occupa , visto la caoticità dell’intreccio avviluppatosi nel primo tempo, un buon terzo di film.
Cinema tombale, stanco e malamente verboso, che pretende un’aura autoriale e guarda a Hitchcock (da molto molto lontano) ma che sconta l’evaporazione istantanea dei temi portanti appena essi si presentano come opportunità per dare peso ad alla storia e che fa dell’inverosimiglianza della dinamica degli eventi il proprio ammiccamento verso la platea.
Soderbergh mostra prima e dimostra poi con flashback esplicativi, sbrigativi. Immagini “belle” pretendono una nobiltà mai sostenuta da un’anima o da un senso diverso da ciò che mostrano.
Una messa in scena che da sola non funziona affatto e le parole sempre, sostituiscono quello che dovrebbero dire le immagini, così che sia tutto chiaro, senza quelle zone oscure tipiche dei noir che colano liquide nel subconscio e stratificano il senso psicologico della storia. Questa era la lezione di Hitchcock.
Qui no. Qui è tutto senza ombra di dubbio, come ogni film mainstream meccanico e obbediente alle esigenze del vasto, distratto pubblico che non ammette domande a posteriori e deve uscire rassicurato dalla visione del caos. Cinema patetico pre sveltina del sabato sera adatto alla visione in DVD da distributore automatico di emozioni precotte.
L’unica domanda che sorge spontanea dalla visione di questo radiodramma ciarlato è : ma era necessario filmarlo?
Soderbergh ha annunciato il suo ritiro dalle scene. Qualcuno gli dica che la cosa è già avvenuta parecchi film fa senza che se ne sia accorto.
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