Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film
Di intrigo in intrigo si finisce per ritornare al punto di partenza. Le carte della finzione e del doppio gioco si possono rimescolare tante volte, ma ormai è troppo alto il rischio di ricadere in una combinazione già uscita. L’ultima opera di Steven Soderbergh soffre visibilmente del peso di quelle azioni passate che, secondo una frase chiave del film, anticipano le azioni future. I tanti gialli letti e riletti ci hanno forse resi immuni dall’effetto sorpresa prodotto dalle stratificate costruzioni dell’apparenza, dalle trame complesse che si svelano poco alla volta, divertendosi, ad ogni passo, a smentire le attese con una scontata alternanza tra le due possibili facce della verità. Il meccanismo, arcinoto e ampiamente collaudato, in questo caso non si può nemmeno avvantaggiare dell’attualità del soggetto, e del sottotesto critico nei confronti di certi trattamenti psichiatrici e della incauta commercializzazione di medicinali con pericolosi effetti collaterali. Un tema controverso e socialmente delicato come questo, che tradizionalmente si presterebbe a fornire la sostanza polemica al solito legal thriller, rimane invece impigliato nelle ambigue implicazioni personali di una vicenda artificiosa sul piano delle emozioni, ed involuta nella struttura dialettica. Tanta rigidità non giova certo allo sviluppo della tensione, che procede stancamente lungo il solco di una prevedibilità dispensata a piccole dosi. Questa sobria gradualità narrativa fa a pugni con il gusto della ricerca, e spegne ogni entusiasmo nei confronti di una storia che pure avrebbe, di per sé, tutti i requisiti per suscitare interesse ed offrire allo spettatore, attraverso le problematiche legate alle sindromi depressive, validi spunti di immedesimazione. È un peccato che il potenziale mistero si presenti avvolto in una densa e verbosa cortina di fumo: il suo fascino opaco e inafferrabile confina anche l’inquietante mondo della follia in una dimensione remota e poco suggestiva. La malattia mentale si riduce ad un fantasma privo di forma e di voce, totalmente incapace di trasmetterci l’umana eco del dolore: il suo inquadramento in categorie giudiziarie, farmacologiche ed ospedaliere lo rende tanto universale quanto anonimo, spogliato di ogni drammaticità originale e condivisibile, ed appiattito sulle solite manifestazioni sintomatologiche (crisi, catatonia, amnesia), scientificamente superficiali e cinematograficamente insignificanti. Di questo Side Effects vorremmo poter dire di più, incrociando il suo messaggio con le riflessioni sulla nostra realtà spezzata e confusa. Purtroppo, al di là degli indubitabili pregi registici ed interpretativi, ogni tentativo di approfondimento si blocca per mancanza di motivazione: ciò che ci convince non ci coinvolge, e forte è la tendenza a dimenticarlo in fretta.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta