Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film
Un film pleonastico in cui nulla è superfluo (se non, magnificamente, il film stesso).
Beyond inizia là dove Outrage terminava: con una bustarella. E il passaggio di testimone fra chi muoveva le fila avviene proprio in metaforica concomitanza con quello scambio fra mazzetta e favore/collaborazione, dal nuovo capo di una delle due famiglie della yakuza alleate & in guerra al poliziotto/detective che, esattamente come la sua controparte, è mosso dalla voglia di scalare il potere.
- Dove hai pescato quei ragazzi, dove li hai trovati?
- Eh… Sono i figli di due miei cari vecchi fratelli [di yakuza], due coglioni di teppistelli, come i loro padri. Li ho fatti entrare io, è stata una mia idea... Guarda in cosa li ho coinvolti. E il bello è che a loro piace questa vita, e pensano di stare meglio.
La staffetta di questo finale (nel quale la zizzania, il significante, viene mitigata dalla vendetta, la motivazione), invece, avviene fra i due vecchi nemici poi amici e fra i due poliziotti, quello col piede in due staffe, che crede di gestire la situazione da “dietro” le quinte (un burattinaio tanto astuto e sveglio quant’ottusamente idiot’al quale, parafrasando la legge dei grandi numeri di Bernoulli, una marionetta si ribella: se sfidi il destino un numero sufficiente di volte, puoi stare ragionevolmente sicuro, per approssimazione, che il destino ti present’il conto), e quello integerrimo. Dei quattro, ne sopravviveranno due, di cui uno “svanisce” accolto (ingoiato) dall’ombra, e l’altro, un Arlecchino in completo grigio-nero servitore di sé stesso, dopo aver infiammato lo schermo come tante altre volte (ma senza sguardo - con annesso celeberrimo e ghignantemente fissato nella carne sfregio incidentale causato da un “involontario tentativo di suicidio” in motocicletta - diretto in camera fra i due “shot”, quello dell’arma da fuoco e quello della macchina da presa), a principiare da Justus D. Barnes nell’ultimo quadro del “the Train Great Robbery” di Edwin S. Porter, 110 anni prima (o il “redivivo” Joe Pesci, ripescato dal pavimento della sala di montaggio e reimmesso in circolo nella pen-ultima inq.ra da Martin Scorsese in “GoodFellas”), viene tagliato di netto (che poi attraversi il Canale di Corea è un sottinteso) con uno stacco (- non si muove -) a nero.
Beyond ricalca e al tempo stesso estremizza parossisticamente il suo predecessore, saturandosene, e portando gli stilemi formali e il contenuto di sostanza morale/etica ad un livello ulteriore, esponenziale, di allegoria iperrealista che cristallizza la perfezione colandola nello stampo ricalcante un modello consolidato, usurato, portandolo a redivivo splendore, pacato e furente.
L’ordine “prestabilito” è (ri)stabilito, per il momento. Ce ne fregherà ancora qualcosa quando Otomo sarà di nuovo in campo (verso la Coda).
Un film pleonastico in cui nulla è superfluo (se non, magnificamente, il film stesso).
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