Regia di Serdar Akar vedi scheda film
Anche la Turchia ha il suo polar televisivo. Il suo (anti)eroe, un po’ malinconico, un po’ sbruffone, un mix arrabbiato di Montalbano e Coliandro, liricamente decadente ma irresistibilmente popolare. Il suo nome è Behzat C., ed è un commissario della squadra omicidi di Ankara. È un uomo fondamentalmente solo, afflitto da allucinazioni e dedito al bere, ma dalla volontà irremovibile. Il suo personaggio è poco romanzesco, privo di successi che gli procurino la fama o di sogni che lo facciano volare, e invece pieno di sventure che lo rendono piccolo e di incubi che lo schiacciano al suolo. Già, la terra. Nella prima scena lo vediamo scavare una fossa, in mezzo alla campagna, con una foga forsennata, come se là sotto ci fosse qualcuno. E il pensiero corre subito al tema di C’era una volta in Anatolia, la ricerca disperata di corpi inghiottiti dal nulla. Behzat sta solo immaginando di poterne recuperare uno, strappandolo alla morte per asfissia. È il suo tentativo figurato di rimediare ad un dolore insopportabile. È la visionaria reazione ad un rimpianto, forse ad un rimorso, che lo perseguita senza pietà. L’ossessione si innesta nei punti dolenti, nelle ferite che non vogliono guarire, e restano esposte al tormentoso vento del dispetto. L’azione di un serial killer riesce così ad andare oltre il male inflitto alle sue vittime, per trasformarsi in un ciclone che colpisce chiunque si senta in qualche modo colpevole, o anche solamente debole ed inadeguato. Molti, intorno a Bezhat, credono di essere il bersaglio di Red Kid, il folle assassino che uccide persone ed animali seppellendoli vivi, dopo averli chiusi in una cassa di legno. Diversi collaboratori di Bezhat sono convinti che quello squilibrato ce l’abbia con loro. Succede anche ad Akbaba, l’addetto agli scavi, che ha un grande fiuto per il terreno e per le cose che questo nasconde: esso è, per lui, contemporaneamente, il nemico e il mistero, al quale occorre sottrarre le prede innocenti ed i funesti segreti, prima che sia troppo tardi. È forte il richiamo che attira verso il basso, dove lo spazio di manovra è poco e l’oscurità è tanta, ma dove forse, arrangiandosi con una pala e con le mani, si può ancora tentare di fare qualcosa. La fatica probabilmente è vana, perché c’è un peso che grava sulla testa: è l’oppressione esercitata da un potere occulto, che impedisce di andare a fondo della faccenda. Gli omicidi continuano, ma qualcuno, dall’alto, vuole ad ogni costo impedire che le indagini procedano. Servizi segreti deviati, interessi politici, depistaggi in nome della ragion di stato sono i fantasmi, decisamente concreti e pericolosi, che Behzat pensa di poter sfidare nello stesso modo in cui, da tempo, affronta quelli impalpabili ed irreali, di origine psicotica, che gli popolano la mente. Behzat non teme l’assurdo: per questo continua a dar da mangiare al coniglio inesistente che è convinto di vedere in un angolo del salotto. La sua determinazione è una mania divenuta routine, come la sua abitudine di bere vodka da una tazza da tè. Il suo cinismo è solo un’appendice della sua immodificabile tristezza, che lo rende parte integrante della imperscrutabile crudeltà del destino. Dopo due anni di programmazione, la fiction turca Behzat Ç. Bir Ankara Polisiyesi approda sul grande schermo, con un episodio intitolato Ho sepolto il mio cuore, offrendoci un action movie coi lucciconi agli occhi, che trascina lentamente la scia del rancore, con tutte le sue ramificazioni, lungo l’intera (dis)avventura del crimine.
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