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Snow

Regia di Aida Begic vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Snow

di lostraniero
7 stelle

Se c’è un film, che fuori dall’ovvietà e con la non-passione di cadere nel baratro di un cinema autoriale e quindi ‘di culto’, vuole stabilire con esattezza i confini tra la ‘terra-dei-vivi’ ed il ‘cielo-dei-morti’, questo è di certo “Snijeg”.

E non perché si parli dell’olocausto balcanico, trauma sottaciuto – perché europeissimo, perché legato a doppio filo con le ‘magnifiche sorti’ novecentesche del nostro esausto continente – e quindi, paradossalmente, zampillante in mille forme carsiche nel nostro inconscio (il Manchevski di “Before the rain”, “No man’s land” di Tanovic o il duetto/duello femminile del “Grbavica” di Jasmila Zbanic, ma anche i meno conosciuti “Halimin put” o “Niciji sin”); forse neanche perché il titolo stesso dell’opera della regista Begic, evoca uno dei fenomeni più essenziali, purificanti, per l’ossigeno che serve a nutrire l’esistenza umana. La neve. Il fenomeno della solidificazione intima del gelo della morte, della solitudine, della precarietà dell’esistenza e che viene a coprire le cose – ‘tutte’ le cose – informando della loro corporeità mentre le cela al tempo sempre uguale della nostra vista.

In “Snijeg” quello che davvero colpisce sono quelle parti del racconto filmico che mantengono trattenuto, con grande sapienza narrativa, il terribile antefatto della vita (ancestrale, bucolica, ascetica e quasi misteriosa) di una piccola comunità di sopravvissuti. Anzi, di ‘intra-vissuti’, per come la lacerazione non sia stata per loro un piano di passaggio, il solaio calpestabile della loro stagione dell’orrore, ma rimanga come una porta aperta all’interno della quale ripassare nel passato e sostare in una ipotesi ‘salva’ (fatta salva) di futuro.

 

 

Al contrario, e per contrappasso, tutto quello che invece orla questo magnifico arazzo di trattenuta complicità, con le comuni frange di stoffa a grana grossa di patetismo o di piatta compiacenza (che vorrebbero alla fine ri-consegnarci l’ennesimo racconto morale, mi pare), ne scioglie la materia sacrale. Come si può squagliare la neve al sole di una attenta visione di uno spettatore che, rimasto rapito dalla prima parte del film, ne indichi alla fine una certa involuzione nella seconda. Il rammarico è doppio e tenta di essere triplo, se consideriamo l’innesto di figure davvero ‘fenomeniche’ come quelle del piccolo Ali (un bambino ieratico, traumatizzato dalla guerra e a cui crescono innaturalmente i capelli quanto più ne sente avvicinarsi l’orrore alla sua piccola figura), o quella dell’anziana donna che – per tutta la durata del film – tesse al telaio il tappeto che coprirà il passaggio verso la ‘caverna blu’, il luogo dove sono sepolte tutte le vittime innocenti del villaggio.

Due personaggi che, sviluppati forse con più attenzione, avrebbero riequilibrato l’intero plot verso quella bellissima ispirazione che aleggia per la prima mezzora.

Certo, non è da meno, almeno in sede di script, l’irrompere dell’arroganza del potere finanziario (che indossa le stesse vesti della prepotenza in armi e patria cetnica), che dispone di cose, persone, luoghi e dignità altrui. “Dovrete andarvene da qui, in un modo o nell’altro”, il manager americano minaccia – spalleggiato com’è dal boia ripulito e messo a nuovo – la fiera proprietaria dell’appezzamento, e così si ha proprio la netta sensazione che la guerra, la guerra in-civile che ha decimato le case e sventrato le moschee, e tolto la parola e creato famiglie di orfani e di donne accecate da fughe impossibili, proprio quella guerra dichiarata conclusa torna con gli abiti della domenica. A chiedere la firma sull’ultimo rigo. In duplice copia. In vece dei morti e a comprarsi i vivi.

Tutto il film dà l’impressione di somigliare al colorato foulard che Alma, la protagonista, indossa ogni mattina per andare a lavare la sua angoscia all’acqua della fonte; uno splendore ‘araldico’ di segni e di figure da crittografare con fatica per decifrarne la materia comunicativa. E qualcosa che comunque copre il nostro capo, ci protegge e ci identifica, ci fa appartenere ad una storia. Anzi, è la storia della storia stessa. Che non viene raccontata.

Avanza nel vento, occupa parte dell’inquadratura, viene stretto alla chioma, fluttua e scompare, si annoda, si riscioglie e non regala di sé che il senso affannoso dell’umanità che combatte (e mai vince e mai perde) la sua eterna battaglia contro la conosciuta ferocia. Ne consiglio la visione.

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