Regia di Berend Boorsma, Roel Boorsma vedi scheda film
Milo è un adolescente affetto da ipertricosi. A causa di un difetto genetico, tutta la metà superiore del suo corpo, compreso il viso, è coperta da una folta peluria. Almeno così sarebbe se non provvedesse, ogni mattina, a cospargere la parte con un’apposita crema curativa. Milo, in realtà, non si è mai visto allo stato naturale, ed ignora di avere quel problema. Non conosce l’effettivo significato di quella pomata bianca. I genitori glielo hanno sempre taciuto. Fino a che, ad un certo punto, la verità viene a galla nel peggiore dei modi. Un giorno Milo scappa, per raggiungere i compagni partiti per una gita scolastica alla quale il padre gli aveva proibito di partecipare. Quindi, fatalmente, si perde, e viene accolto in casa di estranei: a prenderlo presso di sé è una coppia di sbandati, che vivono in una baracca isolata. L’uomo, in particolare, è un tipo poco raccomandabile, che tenta di approfittare della situazione per estorcere un riscatto. Tuttavia recede dal proprio piano criminale nel momento in cui si rende conto del dramma che affligge il suo piccolo ostaggio. Milo, nel cercare la libertà, si scopre improvvisamente diverso da come credeva di essere; si guarda allo specchio e vi trova un’immagine sconvolgente, che non gli somiglia per nulla, e che non sembra neppure avere sembianze umane. Per quel ragazzino, l’uscita dal nido familiare coincide con una traumatica presa di coscienza del’autentico volto del mondo, che, in questo caso, comprende anche il suo stesso aspetto fisico. La decisione di andare allo sbaraglio lo proietta, improvvisamente, in una dimensione nella quale, una volta cadute le barriere protettive da cui fino ad allora era stato circondato, lo attendono l’alienazione e l’abbrutimento: due degenerazioni tipiche dell’età adulta, che il suo viso, divenuto d’un tratto scimmiesco, pare voler riassumere in una grottesca metafora dal gusto preistorico. Primitivo e bestiale è forse, d’altronde, anche il carattere della sincerità: questa è infatti un atteggiamento fondamentalmente crudele, che evita ogni tipo di mascheramento consolatorio, per porre ognuno davanti alla dura realtà delle cose. L’ipocrisia, per contro, non è niente altro che vile messinscena, tanto pietosa quanto labile, frutto di una malinteso senso della civiltà: quello che pretenderebbe di sancire la nostra superiorità intellettuale rispetto agli animali mediante l’esercizio di un pensiero complesso, che però è tale solo in quanto contorto ed ingannevole. Il padre di Milo sostiene il valore della falsità e della reticenza come armi di difesa contro i possibile danni derivanti dal giudizio altrui: nella sua visione della vita sociale, la guerra per l’affermazione personale si combatte con le apparenze che nascondono e le parole che fuorviano. All’occorrenza, anche i soldi possono servire a comprare il silenzio e a perpetuare la menzogna. Dissanguarsi, in senso economico o letterale, può essere preferibile alla vergogna di mostrarsi pubblicamente in una veste considerata umiliante. Da un genitore con questa mentalità Milo non ha potuto di imparare nulla sulla vita e sulle sfide a cui essa sottopone la nostra capacità di accettazione. Ha dovuto subire uno spavento per tirare fuori, con le proprie forze, il coraggio di essere se stesso. Per compiere il miracolo, è bastata una rapida incursione nell’universo lacero e sudicio del degrado. In quel luogo tutto risulta più difficile e cattivo, però l’esistenza è una questione che si pone in termini più scarni e diretti: sarà che, là in fondo, l’uomo è più vicino, anche con la mente, alla sua primordiale condizione di creatura malamente impastata di terra e fango.
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