Regia di Piero Francisci vedi scheda film
Il cannone che doveva sparare una fulgida vita di sant'Antonio, con inno alla ricostruzione post-bellica, si rivela una cerbottana che spara una pallina di stucco.
Impegno produttivo abbastanza corposo per un risultato deludente, e ciò non certo per il “clericalismo”, ma per alcune idee di partenza già sbagliate.
Innanzitutto si è voluto chiamare un divo, quale già allora era Aldo Fabrizi, come annunciato in pompa magna nei titoli; ma se si scrittura un divo, bisogna ritagliargli una parte su misura che gli dia risalto, anche se c'entra poco con il film. E questo è appunto uno dei passi falsi: l'episodio di Fabrizi è inserito nel film come la quinta ruota del carro (modo di dire tedesco); non serve e dà fastidio. Il suo episodio è infatti eterogeneo rispetto al resto della vicenda, e per giunta mal sceneggiato.
Inoltre, la cornice contemporanea della famigliola con il padre disperso nella campagna di Russia avrebbe dovuto mantenere la sua consistenza fino alla fine, essendo essa il presupposto del rimando nel passato. Invece, il flash-back ce la fa presto dimenticare, o meglio, ci lascia a disagio perché l'abbandona quasi del tutto, dopo averci interessato ad essa.
Il terzo problema è la virata finale del film che gronda retorica utopistica e mondialistica, dove persino sant'Antonio e la sua fede appaiono accantonati e storpiati.
Peccato, perché l'inizio mi aveva fatto sperare bene (con il suo tocco neorealista), e anche la metà (stile cinema storico tipo “La cena delle beffe”) mi era piaciuta abbastanza. Ma dopo la metà la pellicola naufraga e non recupera più.
Nelle mani di un Augusto Genina, o persino Rossellini, il film sarebbe stato un'altra cosa, come ad esempio una bella rivisitazione della vita del celeberrimo santo portoghese di adozione padovana. Ma Francisci, forse non privo di talento, a quanto pare accettò le imposizioni dell'invadente e ambiziosa produzione, la quale, per troppo volere, nulla strinse.
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