Regia di Robert Bresson vedi scheda film
Pickpocket è il quinto lungometraggio del regista Robert Bresson. Fedele allo stile minimalista che lo contraddistingue, il regista francese ci racconta la vicenda del giovane Michel, un nichilista che guadagna da vivere derubando altre persone.
Evidente è il richiamo al romanzo di Fedor Dostoevskji Delitto e castigo, che, almeno per chi scrive, occupa un ruolo centrale nella comprensione della vicenda. Innanzitutto sulla figura chiave del protagonista: così come Raskol’nikov, Michel è un giovane in balia di sentimenti nichilisti che gli impediscono di coltivare rapporti con altre persone, la madre su tutte, per la quale prova un sentimento contrastante di amore e odio. In preda al vuoto esistenziale e morale della propria vita, entrambi cercheranno di aggrapparsi a teorie che vanno al di là del bene e del male, che prevedono (nel caso di Dostoevskji) e riprendono (nel caso di Bresson) le teorie del ubermensch di Friedrich Nietzsche. Orme inconfutabili, che fanno pensare sempre più al romanzo dello scrittore russo, vengono lasciate anche dai personaggi secondari come ad esempio Jacques (Razumichin), l’amico che cerca in più modi di riportarlo sulla retta via, e Jeanne, figlia di un padre ubriacone che ricorda Sof’ja. L’assoluzione finale del protagonista avviene grazie all’amore sincero per la ragazza, ma passa soprattutto dalla prigionia materiale e dal castigo morale, necessari alla liberazione spirituale di Michel/Raskol’nikov.
La sofferenza, questa è l'unica causa della consapevolezza.
Fedor Dostoevskij, Memorie del sottosuolo
Ritornando al film, mi sento in dovere di riprendere un’osservazione fatta da Spopola nella sua recensione di Un condannato a morte è fuggito, che precede di tre anni Pickpocket:
Bresson analizza e trasla l’avvenimento (il racconto della fuga di Devigny) con il suo sguardo analitico, per trasferirlo in un’opera di straordinaria tenuta anche emotiva, che contiene una delle sue più convinte dichiarazioni di fede nelle capacità umane (l’ultima forse nella quale si ritrovano evidenti tracce di speranza, prima che cominciasse il lento viaggio nella disillusione iniziato con Pickpocket e che lo porterà ad esprimere l’agghiacciante pessimismo che non risparmia più nessuno della sua ultima opera.
La trasformazione del pensiero di Bresson, avvenne, secondo le parole dello stesso regista francese, perché:
(...) E’ questa civiltà di massa dove ben presto l’individuo non esisterà più. Questa folle agitazione. Questa immensa impresa di demolizione dove moriremo per colpa di ciò per cui avevamo sperato di vivere. E’ anche la stupefacente indifferenza della gente con l’esclusione di alcuni dei giovani più lucidi che mi porta ad esprimere tanto scoraggiamento… (sempre dalla recensione di Spopola)
Lucidamente analizzata, la società del tempo appare a Bresson nichilista e senza speranze. Mentre nel precedente film il protagonista riusciva a fuggire dalla prigione, che metaforicamente richiamava a un’incessante lotta prima di tutto contro se stessi, in Pickpocket il giovane Michel termina il suo viaggio dentro la cella. Prigionia che diventa reale, sebbene Bresson ci mostri per tutto il film le pareti vuote della stanza spoglia in cui Michel abita, che inevitabilmente presenta delle somiglianze con l’asciutta messa in scena nella quale si svolgeva gran parte dell’azione di “Un condannato a morte è fuggito”. Un richiamo, l’ennesimo, che porta all’attenzione un altro, decisivo aspetto: sebbene libero di potersi muovere verso qualsiasi parte della città (e d’europa, dato che viaggerà in direzione Italia prima e Inghilterra dopo), Michel si trova imprigionato nella sua esistenza, nel ciclico ripetersi di giorni tutti uguali e senza futuro, ancorato a un presente indeterminato nel quale qualsiasi ipotesi di progettazione futura viene annichilita dal bisogno estemporaneo, dall’edonismo sfacciato di questa nuova società di massa e del consumo stigmatizzata da Bresson e di cui il suo personaggio ne fa assolutamente parte. Il viaggio di Michel non può che concludersi nel modo sopra accennato, ovvero con l’arresto e il carcere. Solo da qui, come accaduto con Devigny, potrà tentare la fuga non dalla prigione materiale che lo circonda, ma dall’esistenza che fino a quel momento lo ha visto imprigionato.
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