Regia di Robert Bresson vedi scheda film
La mia generazione non ha potuto mai vedere un film di Bresson in sala, tranne nei club che dedicavano al Maestro una retrospettiva, un cineforum, una rassegna. Ecco, allora, che la visione di Pickpocket è rimasta un fatto privato: il cinema ascetico visto, esplorato, analizzato da asceti. Qualche anno fa, però, un piccolo locale napoletano ebbe la bella idea di inserirlo nella programmazione tradizionale, senza neanche pensarci troppo. Recatomi al cinema, pensando di trovare la sala vuota, resto esterrefatto: posti in piedi ! E cxxx, ma me me lo vedo lo stesso, mi dico. Detto fatto: l'aria sembrava quella degli anni '60, con persone stipate ovunque, tese a comprendere il film e sentire gli umori del vicino (vicinissimo) spettatore per capire le ragioni di quel successo! E meno male che nessuno fumava... In realtà, la risposta è semplice: Robert Bresson era troppo in anticipo sui tempi. Il mondo che si prospettava all'epoca andava incontro a James Bond, ai viaggi sulla Luna, alla tecnologia. Non c'era voglia di riflettere. Possiamo immaginare questi momenti: un gran fermento, il boom alle porte e poi la contestazione, un decennio dopo. Ma il Male ed il Bene non sono unificabili: il diritto alla coerenza non è una conquista, semplicemente un valore. Ieri fumare sembrava un bene, lo facevano tutti. Oggi, no. Non c'è coerenza nell'uomo. In Bresson, invece, sì. Anche quando filma un ladro, si limita semplicemente a filmare un Uomo. Le mani sono primi piani attraverso le focali corte dei suoi obiettivi; i gesti, talora ripetitivi, rappresentano la vita. Ancora una trama semplice: Michel, da intellettuale borghese si lascia tentare dal vizio di rubare, per il piacere del rischio, quel brivido necessario a dare alito ad una vita altrimenti innocua, sterile. Forse, l'amore di una ragazza lo salverà. Una donna madre, senza un compagno. In cerca di quell' Uomo. Che potrebbe diventare Michel. Il tempo della narrazione è senza fronzoli, ma non lineare perché aderisce al personaggio: ora disturbato, ora mistico, ora delirante. Questa sorta di viaggio nella maturazione accompagnato dalle pagine di un Diario (che era stato usato già per il "Diario di un curato di campagna") è un espediente caro a Bresson: posso qui dire che è quasi lo stesso metodo che userà il nostro Nanni per "Caro Diario", che, studiando l'azione frammentata di Bresson, limpida, senza fronzoli, proverà a ripercorrerne le gesta in termini personali, schematizzandola in tre episodi (mente, anima, corpo), mentre il regista francese, che si muove su binari drammatici, aveva provato ad unificarne (e, dunque, ad ingigantirne) le trame, ritenendo lo spirito collante indissolubile della mente, dell'anima, del corpo. Eppure, a ben guardare, la follia che accompagna Michel è la stessa che accompagna Moretti. Eccolo, il Maestro, prendersi la rivincita: in anticipo sui tempi, è vero. Ma praticamente nessuno può farne a meno, oggi, in era post-new-age! Ed è per questo che egli ci lascia col dubbio, sino alla fine: che sia lo spettatore a scegliere la sua interpretazione. Ahhh, com'è bello sentire la pellicola originale, quel rumore intenso che copre i titoli di coda....Leggenda vuole che Cocteau mise mano ai dialoghi. Non so se è vero: di certo, quell'applauso, in quella piccola sala, posti in piedi, per me, resterà indimenticabile.
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