Regia di Arthur Penn vedi scheda film
“Viene il giorno che l’erba non cresce, il vento non soffia e il cielo non è blu”.
Nel 1970 Piccolo grande uomo piomba come un macigno sulla coscienza sporca della storia americana. In un periodo in cui l’America faceva i conti con la propria storia e con le proprie contraddizioni, anche il western, genere per eccellenza del cinema a stelle e strisce, subiva un processo revisionistico irreversibile. Tratto dal romanzo omonimo di Thomas Berger, Piccolo grande uomo è il secondo “antiwestern” diretto da Arthur Penn, che già all’esordio da regista, con il bellissimo Furia selvaggia, si era proposto di demitizzare l’aspetto epico e leggendario del selvaggio West. Il protagonista è l’ultracentenario Jack Crabb (Dustin Hoffman) che, davanti ad un giovane e scettico giornalista, racconta in flashback la sua storia. A dieci anni Jack, rimasto orfano, viene accolto nella tribù dei Cherokee e adottato dal capo indiano Cotenna di Bisonte (Chief Dan George). Il giovane Jack, soprannominato “Piccolo grande uomo” per la bassa statura che faceva da contrasto con il suo coraggio in battaglia, cresce ed impara gli usi e i costumi del “popolo degli uomini”. Catturato dai bianchi, viene rispedito nel mondo civile, passando da una fase all’altra della sua adolescenza: da figlio adottivo di un reverendo ad assistente del ciarlatano Merriweather (Martin Balsam), da pistolero ammazzasette conosciuto col nome di Gazzosa Kid (memorabile il suo incontro con Wild Bill Hickock) a truffatore ed ubriacone. Infine, arruolato nell’esercito come mulattiere, assiste di persona al massacro operato dal vigliacco generale Custer (Richard Mulligan) ed alla sua storica sconfitta a Little Big Horn.
Di western filo indiani ce n’erano già stati, fin dagli anni Cinquanta (L’amante indiana, La tortura della freccia, Il grande sentiero) ma il film di Arthur Penn è, insieme a Soldato blu, diretto da Ralph Nelson nello stesso anno, quello che suona come un vero e proprio attacco contro il popolo dei bianchi, responsabili del genocidio dei pellerossa. Ma se Soldato blu era più schematico e rozzo nella sua volontaria sgradevolezza, Piccolo grande uomo è un racconto ad ampio raggio con il quale Penn cerca di coniugare il romanzo storico con alcune delle sue tematiche preferite. Cosicché non è soltanto il racconto dello sterminio dei nativi americani, bensì diventa un apologo ora ironico ora tragico che serve a smascherare la cattiva morale e la mancanza di etica del popolo americano. Ma è anche la rappresentazione della crisi d’identità di un uomo (Jack, come prima lo era stato il Kid di Furia selvaggia) diviso tra due culture diverse, un uomo che subisce mille trasformazioni prima di trovare pace in sé stesso. Penn riesce ad alternare i toni della ballata umoristica (fantastica la colonna sonora folk di John Hammond) con svolte drammatiche che rimangono impresse nella mente (il massacro di donne e bambini operato da Custer). La carica eversiva di Penn e dello sceneggiatore Calder Willingham si scagliano impietosi soprattutto contro il “falso mito” del generale Custer, uomo mediocre mostrato, a tratti anche in modo esageratamente caricaturale, in tutta la sua imbecillità. Dustin Hoffman, giovane attore e tra i volti nuovi del cinema americano degli anni Settanta, si carica sulle spalle l’intero film, fornendo un’interpretazione mimetica e sofferta. Tra gli altri attori che lo affiancano, oltre ad una bellissima e conturbante Faye Dunaway nel ruolo della spregiudicata moglie del reverendo, spicca soprattutto Chief Dan George, attore realmente di origine nativo-americana. Il suo personaggio è il cuore morale del film. È lui che impreziosisce il bellissimo finale, quando Cotenna di Bisonte dice che ha “deciso di morire”. Così, accompagnato da Jack, se ne va sulle montagne dei propri avi, si sdraia a terra ed aspetta invano una morte che non arriva. “Temevo che andasse così… Qualche volta la magia funziona, ma qualche volta no!” dice sconsolato prima di rialzarsi e tornare al villaggio sotto una pioggia scrosciante.
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