Regia di Ray Ashley, Morris Engel, Ruth Orkin vedi scheda film
Raro caso di film la cui regia risulta accreditata a ben tre nomi, Morris Engel, Ruth Orkin e Ray Ashley, “Il piccolo fuggitivo” (vincitore nel 1953 del Leone d’argento alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia) è un’opera fieramente indipendente, girata con uno stile libero e creativo, che fa dell’improvvisazione la propria bandiera. Il film racconta, senza alcuna retorica, il complesso e articolato mondo dell’infanzia attraverso le disavventure di cui rimane vittima un bambino di sette anni, Joye Norton, al quale viene fatto credere di essere il responsabile della morte di suo fratello, Lennie. Tra Lennie e Joye intercorre un rapporto di amore-odio; lo capiamo sin dall’inizio quando, mentre gioca per strada, il secondo dice del primo: “Lui è Lennie, il mio fratello maggiore, oggi compie dodici anni. Questo è il suo regalo di compleanno: un’armonica. Lennie è bravo a suonare l’armonica e anche a giocare a baseball. Non si merita un regalo perché mi prende in giro di continuo. Non mi lascia neanche toccare la sua armonica”. Lennie, dal canto suo, ribatte: “Lui è Joye, il mio fratello minore. Tutti dicono sempre: ”Non è da baciare?” E baciatelo, allora! Joye non è male, ma in estate è una rottura perché la mamma lavora e devo badare io a lui. Sono contento che sia sabato. Joye è molto sveglio per la sua età, sa tutto sui cavalli, non pensa ad altro. Non conoscerete mai un bambino così matto per i cavalli”.
La morte di Lennie a cui abbiamo accennato prima, in realtà, è una finzione ordita da lui stesso: il suo scopo è quello di punire Joye, perché lo ritiene colpevole di avergli fatto perdere la possibilità di festeggiare il suo compleanno alle giostre di Coney Island. Tutto nasce quando la mamma dei due ragazzini, residenti a Brooklyn in un modesto appartamento, deve partire improvvisamente per andare a trovare la propria madre malata: prima di lasciare i figli a casa da soli con sei dollari e una lista della spesa, la donna prega Lennie di prendersi cura del fratello minore. Costretto controvoglia a badare a Joye, Lennie deve così rinunciare ad andare a Coney Island, dove avrebbe voluto divertirsi in compagnia degli amici. Per vendicarsi del fratello minore, Lennie, colmo di rabbia, gli fa credere di essere stato ucciso da lui con un colpo di fucile. Lo sparo, ovviamente, è finto ma Joye, completamente ignaro del fatto che sia tutto una burla, da quel momento si convince di essere il colpevole della morte del fratello. Divorato dal senso di colpa, Joye se ne scappa tutto solo a Coney Island.
Qui lo vediamo passare una giornata prima al luna park, dove, tra giostre varie, tiro al bersaglio, enormi ruote panoramiche e leccornie di ogni tipo, spende tutti i soldi che sua madre gli aveva lasciato prima di partire, poi sulla spiaggia, dove trascorre il tempo a recuperare le bottiglie vuote, che si premura di riportare al deposito da cui provengono al fine di ottenere cinque centesimi per ogni vuoto ritrovato. Con questa modesta ricompensa, conseguita a seguito di un paziente lavoro di recupero, Joye può permettersi di esaudire un suo grande desiderio: cavalcare un pony. Il proprietario del maneggio, però, vedendolo sempre solo, si insospettirà e comincerà a fargli delle domande.
La parte centrale ambientata a Coney Island è, senza dubbio, il pezzo più bello del film: perché, nelle scene in cui Joye vaga da solo tra la gente disinteressata, il fracasso delle giostre e le bancarelle ricolme di ghiottonerie con l’intento di dimenticare i propri problemi, si toccano vertici altissimi di poesia, grazie a un’efficacissima regia (coadiuvata da un montaggio incisivo, curato da Lester Troob e Ruth Orkin), che si affida all’utilizzo di una macchina da presa 35 millimetri (realizzata per l’occasione da un amico dei tre cineasti, Charles Woodruff), mediante la quale i registi colgono la “realtà” senza filtri, in modo tale che il film possa guadagnare in realismo, con il risultato di creare immagini rapinose, vivide e intense (l’ottima fotografia naturalistica è opera di Morris Engel) che riescono ad emozionare profondamente lo spettatore.
Girato con un budget di soli 30.000 dollari e con una sceneggiatura (firmata da Ray Ashley) scarna ed essenziale (che ha ricevuto una meritata nomination all’Oscar), “Il piccolo fuggitivo” è un’opera poetica e struggente, che ci dimostra quanto sia difficile essere bambini in un mondo nel quale la crudeltà è all’ordine del giorno. Vittima innocente di tale crudeltà è il piccolo Joye (interpretato da un bravissimo Richie Andrusco; il migliore di un valido cast composto interamente da attori non professionisti), che sfugge alle cattiverie di cui viene fatto oggetto rendendosi protagonista di una fuga solitaria: il suo è un gesto estremo di sfida e, insieme, di ribellione, uno sfogo verso coloro i quali lo maltrattano (suo fratello e gli amici di quest’ultimo, che lo vedono come una palla al piede). Alla fine, però, si aggiusterà tutto per il meglio: Lennie capirà di aver esagerato nel volersi vendicare di suo fratello, per una cosa della quale questi era responsabile indirettamente.
Il lieto fine, tuttavia, non stona affatto, perché il film riesce a trattare un argomento (quello dell’infanzia) tanto arduo e problematico senza forzature né melensaggini: ne viene fuori una pellicola pregevole, sincera e autentica che si fa apprezzare proprio per la semplicità e la spontaneità della messa in scena. Bella la colonna sonora composta da Eddie Manson, autore di una musica dal vago sapore western in cui l’armonica la fa da padrona. Tra gli estimatori del film vi era un certo François Truffaut, che una volta ebbe a dire: ”La nostra Nouvelle Vague non sarebbe mai nata se non fosse stato per l’americano Morris Engel che con il suo “The Little Fugitive” ci indicò la strada della produzione indipendente”. E infatti, a conferma di quanto dichiarato dall’autore di pellicole memorabili quali “Jules e Jim” e “La Sirène du Mississippi”, basti pensare alle similitudini che sussistono tra l’Antoine Doinel de “I quattrocento colpi” e il Joye de “Il piccolo fuggitivo”. Un gioiello misconosciuto che merita assolutamente di essere recuperato.
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