Regia di Paolo Zucca vedi scheda film
Era l’anno 2009 quando il cortometraggio L’arbitro, scritto e diretto dal giovane Paolo Zucca, vinceva il David di Donatello e il Premio speciale della Giuria al festival dei corti di Clermont-Ferrand. Forte di tale successo di critica, Zucca comincia a lavorare all’ipotesi di trarre un lungo dal suo corto, facendosi affiancare nella sceneggiatura da Barbara Alberti e trovando in Rai Cinema e nel MiBAC i fondi necessari per supportare il progetto.
La storia del corto, ripresa e allargata per l’occasione, finisce per mescolare le vicende di un arbitro internazionale, alla vigilia della finale di Champions League, con quelle di un miserevole campionato di terza categoria in terra sarda. Procedendo in parallelo, Zucca sviluppa separatamente le due linee narrative per poi farle incrociare nel finale e trovare una soluzione consolatoria che garantisce un happy end appiccicato con la saliva. Se da un lato la vicenda dell’arbitro Cruciani, corrotto per fama di gloria e successo, arriva fuori tempo massimo (basti ricordare che lo stesso tema era alla base del più riuscito L’arbitro di Luigi Filippo D’Amico del 1974 e che la cronaca sportiva degli ultimi anni ci ha abituati a molto peggio), ciò che del film lascia perplessi è la parte dedicata alle vicende dell’Atletico Parabile, la sgangherata squadra sarda in cui arriva a militare l’asso del pallone Matzutzi, una sorta di Maradona dei poveri che, che novità!, arriva dall’Argentina per riscattare anche se involontariamente il nome del padre.
Allenata da un allenatore cieco, la squadra dell’Atletico Parabile da sempre è la peggiore del campionato in cui milita, dove spicca per forza sul campo e per leggi minatorie il Montecrastu guidato dal fazendero (fuorilegge) Brai. Come nella migliore delle tradizioni buoniste, con l’arrivo dell’argentino il Parabile comincia la sua scalata verso la vetta con vittorie su campi che ricordano vecchi cimiteri western e antichi teatri di battaglia, fino ad arrivare all’epilogo che vede le due formazioni concorrenti scontrarsi sotto l’attenzione di quel Cruciani, retrocesso per punizione.
Condito da sottotrame ferme ai tempi di Pane, amore e fantasia, L’arbitro si avvale di personaggi al limite dell’inverosimile e del paradossale (oltre all’allenatore cieco interpretato da Benito Urgu, troviamo il giocatore zoppo e la vecchietta tifosa a far colore) e di situazioni che vorrebbero strappare il sorriso ma che risultano patetiche. Strizzando l’occhio al bianco e nero dei “cinici” Ciprì e Maresco, L’arbitro raggiunge il difficile obiettivo di scimmiottare alcune situazioni già messe in scena dal duo palermitano (la Sardegna ad esempio è vista come quelle sponde del fiume Oreto tanto caro ai due o, peggio ancora, si cita apertamente L’ultima cena di Totò che visse due volte, rimarcandola nella sequenza successiva con un quadro appeso alle pareti) e di trasformarsi in saga del pastiche, mescolando generi diversi tra loro. Passando dal musical (incomprensibili e del tutto fuori luogo i numeri musicali) alla commedia romantica con una Geppi Cucciari che non è di certo Sofia Loren o Gina Lollobrigida, L’arbitro finisce per deferire Paolo Zucca e rimandarlo alla prossima prova, con la speranza che abbandoni quei sottotesti religiosi (dal “cilicio” all’idea dell’ultima cena alla processione finale) che appesantiscono diverse sequenze del suo lavoro.
Pochi, se vogliamo, i punti di merito del film: la presenza, volutamente sopra le righe, di Francesco Pannofino (inimitabile il suo arbitro Mureno, spauracchio di molti italiani), la fotografia di uno sfolgorante bianco e nero (opera di Patrizio Patrizi) e le coreografie iniziali segnate da senso del ritmo e da una perfetta partitura del solito inappuntabile Andrea Guerra.
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