Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
L’impossibilità di definire una semplice “vibrazione” apre scenari inquietanti.
Quando si dice: fare il passo più lungo della gamba (con riferimento ad una post, post, post…. avanguardia che non padroneggia neanche il lessico minimo per esprimere il proprio punto di vista).
O quando si dice: i danni collaterali dell’auto-psicanalisi fai-da-te (grazie agli insegnamenti che provengono da un qualunque salotto televisivo).
O quando, infine, si dice: i danni collaterali della diseducazione (del non essere stati educati ad osservare la realtà anzitutto per quello che è, prima ancora che come ci sussurrano le nostre fantasie).
Quell’ampio ventaglio di umanità che ha smarrito (o non ha mai avuto) la capacità di osservare (e definire) la realtà per quello che è (come premessa per un’azione consequenziale) si è candidato a raccontare Sorrentino. Ma non solo. Quel ristrettissimo spicchio di umanità che, pur disponendo dei mezzi (una lucida capacità di osservazione), si è lasciata travolgere dal flusso delle proprie pulsioni (la mondanità come orizzonte ideale)… e la rassegnazione di una città così bella da togliere il fiato (scena d’apertura) si candida a raccontare Sorrentino.
La città eterna, nella quale convivono, con nonchalance, cattivo gusto, ipocrisie e odore di santità e nei cui marmi è inciso un epitaffio a ciglio asciutto sulla modernità e i suoi disastri (Stenio Solinas).
Che cosa non ha visto infatti, quella città, all’ombra dei suoi marmi (memori dello sfarzo e testimoni dello sfascio: ROTOTOM)? All’ombra dei suoi salotti borghesi, di sicuro, ha scrutato un viveur (Jep Gambardella/T.Servillo) e la sua “fauna” (freaks in frac - o quasi -, macchiette caricaturali, “cariatidi” che questuano la pozione dell’eterna giovinezza - il botox - e pseudointellettuali che sciorinano un eruditismo da quattro soldi fra una pomiciata e l’altra) che sguazzano nell’opulenza più eccessiva e smodata, eppure così effimera.
Di sicuro ha visto (oltre che subìto, dopo anni di incuria e tagli ai fondi per la conservazione del nostro immenso patrimonio artistico) la decadenza. Ecco, La grande bellezza pare un affresco - manierato - della decadenza. Quella dell’uomo e della società in cui egli sguazza. Un declino che non fa sentire in colpa. Non umilia, né mortifica. Non tiene compagnia. Che tiene, piuttosto, una lezione sulla condizione dell’umanità su questa terra. Una lezione lunga una vita. A muovere dalla necessità della consapevolezza del proprio ruolo, dei propri limiti e delle proprie bassezze come condizione perché un mondo notturno, selvaggio e suggestivo spalanchi le proprie porte. E dia accesso a quella “grande bellezza” (una coscia sinuosa; l’orazione della “fissa”; il Colosseo prostrato a propri piedi; la ricchezza come occupazione lavorativa; i capolavori di coloro a cui vene rubata l’adolescenza; l’assoluzione incondizionata, senza la pena della confessione) che solo una lettura del film estremamente distorta potrebbe identificare realmente come tale.
Solo Jep sembra rendersi conto (grazie al dolce ricordo di un approccio amoroso, su una scogliera, in un’altra vita) che, invero, non c’è più alcuna “grande bellezza” attorno a sé. Solo vanesia mediocrità (l’unica forma di “socialismo” che, nell’Occidente del XXX millennio, riesce a fare ancora non pochi proseliti). Solo timidi tentativi di affrancarsi da essa (come quelli, vani, di Romano/C.Verdone, costretto a ridimensionare non poco le proprie velleità artistiche e, da ultimo, ad accettare un esilio amaro). Solo un immenso vuoto e… morte. Una morte (onnipresente) che, nondimeno, in un mondo che ha smarrito la “grande bellezza, non fa più paura.
Vanità e vacuità vanno a braccetto nell’ultimo film di Sorrentino. E destano scalpore. E destano entusiasmo.
È incredibile quanto possa essere divisivo un film certe volte. Nel caso de La grande bellezza c‘è chi lo ha amato e chi lo ha detestato. A mio avviso, (questa volta) in medio stat virtus.
Il film, d’altronde, si commenta da sé (tramite il soliloquio-confessione di Jep): “Il nostro trenino è il migliore perché non va da nessuna parte”. Ebbene, credo (anch’io che; N.d.R.) si possa dire lo stesso della pellicola. Il vuoto è così intenso che smette di essere semplicemente rappresentato e diventa tangibile, rendendo il film stesso vittima di quello che denuncia (canaja). Le inquadrature del film scivolano, con una difficoltà estrema ed una lentezza straziante, sulla pelle ruvida della nostra esistenza. Provano a trattenerne le impurità. E con una fatica immensa, tentano il “miracolo” (scena della spasmodica scalata da parte della “Santa”). Ma Sorrentino è così preso dal bisogno di saturare il confine fra sacro e profano, fra l'astrattezza della metafora sociale e la pacchiana esibizione delle miserie umane (maurizio73), fra carnalità e pulsioni serafiche (steno79), nonchè dalla cura maniacale dell’estetica delle immagini (barocca e crepuscolare; straniante e suggestiva; quasi metafisica; di sicuro autoriale), che dimentica di prevenire un ossimoro lapalissiano. Il vuoto, come contenuto, è una contraddizione in termini. Sorrentino esso fotografa e gli dà una forma. Stucchevole e splendida, certo, ma il maquillage di una decadenza mortifera essa rende una creatura grottesca; spaventosa; orripilante.
Oscar al miglior film straniero meritato? Beh, bisognerebbe aver visto anche gli altri film candidati per potersi esprimere al riguardo. Ma l’impressione è che non ci fosse tutta ‘sta concorrenza…
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