Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Il bel Paese e la sua grande bellezza criticati con uno stile tra Terrence Malick e Federico Fellini da Paolo Sorrentino, che porta il suo prodotto (dopo avergli apposto un’adeguata etichetta da esportazione) in giro per il mondo, per dimostrare probabilmente quanto l’Italia sia divenuta brutta, pacchiana e decadente. Come dice il protagonista Geppino Gambardella (per tutti confidenzialmente “Jep” dopo che ha scritto un libro di successo e ha cominciato a frequentare con assiduità la neo-dolce-vita romana e le case radical-chic) la massima aspirazione di un autore, citando Flaubert, è sempre stata quella di scrivere qualcosa non parlando di nulla. E Sorrentino fa esattamente questo. Se ci si interroga sulla trama di “La grande bellezza”, difatti, si fa fatica ad andare oltre una descrizione lapidaria: ex scrittore prestato al giornalismo frequenta la borghesia romana, riscoprendosi solo.
Che sia questa l’esegesi giusta, o che abbia ragione chi ritiene che si tratti di un mero esercizio di stile puramente sensazionalistico, rimane il fatto che Paolo Sorrentino, 44 anni e 6 film all’attivo (tutti di discreta fattura ma tutti che in fondo vanno nella stessa direzione) confeziona un prodotto che se aveva negli intenti quello di sorprendere, ammaliare e circuire ha colto nel segno. Al di là del modo in cui l’abbia fatto. L’Oscar all’edizione 2014 come miglior film straniero è il riconoscimento per una pellicola che a Fellini, pluripremiato in passato per il suo stile inimitabile, deve tantissimo. La Roma de “La dolce vita”, le parentesi oniriche, i freaks da baraccone (tuttavia deformi spesso più nell’animo che nel fisico) fanno da corollario ad una storia solipsistica che fa di Jep Gambardella (al secolo Toni Servillo) un’icona interessantissima, da studiare a fondo. Ad una prima visione il film lancia numerosi input, anche controversi, incapaci di incanalarsi, come spesso accaduto altrove nella filmografia di Paolo Sorrentino, verso una direzione univoca. Input che andrebbero analizzati e magari metabolizzati prima di farne carne da macello o, viceversa, di gridare al capolavoro.
Quel che si evince di certo è che si tratta di un’opera clamorosamente e volontariamente disturbante, che vuol essere pervicacemente straniante, con un minutaggio spropositato ed un ritmo a tratti lentissimo, in cui spesso le commistioni vanno al di là della dimensione del sogno, con un’analisi dissacratoria (tutta improntata sulla bruttezza) di alcuni cliché italiani. Il tutto senza una (apparente) morale di fondo, senza un giudizio che entri nel merito. Questa aleatorietà, assieme alla cifra stilistica (nuova, quasi aggiustata) adottata dal regista (qui anche sceneggiatore) sono le principali pecche di un film dalla bella confezione, specie nella fotografia; ancor meno perdonabile tuttavia, ma qui usciamo dal valore della pellicola per entrare nell’ambito promozionale della pellicola, è l’ambiguità che accompagna il film a partire dalla sua uscita nelle sale: il riconoscimento al BAFTA e ai Golden Globes prima e quello prestigiosissimo dell’Academy poi hanno spianato la strada ad una morbosità mediatica che la distributrice Medusa non si è fatta sfuggire, creando il caso, più unico che raro, di una pellicola che nella stessa serata è disponibile al cinema, in tv ed a noleggio. Per di più nella versione televisiva lo stesso Sorrentino contempla la “sua” bellezza, guidando, prezzolato da euro italiani tramutatisi di recente in verdoni statunitensi, la nuova 500 della Fiat, chiudendo un triangolo di soldi in cui il cinema italiano (inteso come industria cinematografica) ha guadagnato meno di quanto potesse.
Un’opera ambigua, avvezza ai gusti d’oltre Oceano in cui soltanto le luci e l’interpretazione del protagonista sembrano aver messo tutti d’accordo. Per il resto è bufera, con gli autori che gongolano, avendo probabilmente raggiunto lo scopo principale dell’operazione. Cine-marketing puro.
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