Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
“Roma, comunque, è l'unica città al mondo dove si è pienamente compiuto il marxismo. A Roma non puoi spiccare sugli altri per più di una settimana, poi ti riportano subito nell'aurea mediocritas. Roma...è collettivismo puro!”
Roma, 2013: Jep Gambardella (Toni Servillo) è un 65enne giornalista ed ex-scrittore napoletano, divenuto celebre per un romanzo pubblicato, premiato ed acclamato ancora in gioventù e poi rifiutatosi di scrivere oltre. Il suo obiettivo, venuto a contatto con la realtà romana dopo una vita da provinciale, non ha più niente a che fare con la scrittura, bensì con i salotti d'alta moda, con le feste sfrenate di dubbia moralità, con la crème de la crème della mondanità capitolina.
Jep intrattiene conoscenze superficiali e menzognere, con le rare eccezioni del decadente autore teatrale Romano (Carlo Verdone) e con la spogliarellista Ramona (Sabrina Ferilli).
Fra drink, pettegolezzi, notti di sesso occasionale, raduni a sfondo pseudo-artistico e passeggiate per la città, Jep si coccola nel dorato e artefatto mondo di cui è protagonista, finché la morte del suo primo amore adolescenziale e i tentativi d'incontro con il cardinale Bellucci (Roberto Herlitzka) e con una suora “santona” ultracentenaria lo portano a riconsiderare tutto. Forse.
“Stefà, noi non ribattiamo perché ti vogliamo bene e non ti vogliamo mettere in imbarazzo, ma insomma, tutte queste...vanterie, tutta questa ostentazione seriosa di io, io, io...questi giudizi sprezzanti tagliati con l'accetta nascondono una tua fragilità, un tuo disagio, soprattutto una certa serie di menzogne. Noi ti vogliamo bene, ti conosciamo, certo, conosciamo anche le nostre menzogne ma proprio per questo, a differenza tua, finiamo per parlare di vacuità, di sciocchezzuole, di pettegolezzi proprio perché non abbiamo nessuna intenzione di misurarci con le nostre meschinità!”
Più si avvicina la cerimonia degli Oscar 2014 e più diventa difficile parlare de “La grande bellezza”, visto che in queste occasioni si rischia sempre d'esser tacciati d'irriconoscenza verso un autore italiano di spicco da difendere ad oltranza all'insegna di un inspiegabile campanilismo. A rendere ulteriormente difficile il compito ci si mette pure il film stesso, destinato a dividere perché a sua volta profondamente ambiguo.
Di Sorrentino, va detto, c'è pressoché tutto il meglio: la bravura eccezionale nel dirigere i suoi attori, un inizio pregno e potenzialmente folgorante, il grande ed apprezzabile “dono” della bizzarria, l'intenzione di fare del cinema particolare seppur associata a sprazzi di pessimo gusto, alcuni dialoghi veramente ottimi (ed altri molto meno), i sottotesti malinconici che rimandano al nulla e che ti accompagnano nel vuoto a forza di sorrisi di circostanza, che sono l'unica espressione da esibire per intrattenere a lungo rapporti così insinceri ed equivoci.
Vanno sottolineati anche alcuni inserti lievemente onirici, sfacciatamente manieristici ma resi affascinanti dalla regia di Sorrentino e dalla fotografia del sodale Luca Bigazzi, ancora una volta presente per dare un apporto fondamentale.
Purtroppo c'è pure il peggio: ormai perdutamente innamorato di se stesso, Sorrentino conferma tutti i suoi marchi di fabbrica, andando a dispensare ralenti e inquadrature capovolte con una gratuità assoluta, a fare un uso pesantemente accent(u)ato di una colonna sonora divisa in due tronconi e a lasciar salmodiare i ridondanti e pontificanti monologhi di un Servillo fulcro dell'intero film.
Per non parlare, inoltre, dei camei assurdi come quello di Venditti, della Ferrari, di un Verdone incapace di non interpretare Verdone e della Ferilli, giovane spogliarellista addolorata di un romanesco da macchietta scontata e insopportabile; per non parlare, oppure, della svolta pseudo-mistica dell'ultima mezz'ora, introdotta dalla costante presenza di suore lungo tutto il film e risoltasi con una lunga serie di stereotipi, peraltro già (ab)usati (la santona suor Maria e il suo tirapiedi, il cardinale competente di cucina ma non di fede, la giovane suora che va a farsi iniettare il botulino). Come omettere, poi, la “scena della birra Peroni”, esteticamente resa come un indegno spot televisivo?
Aggiungendo che non posso prendere a riferimento “La dolce vita” di Fellini per miei limiti, il sesto lungometraggio di Paolo Sorrentino si potrebbe sintetizzare così: è un lavoro ipertrofico con punte di ironia quando non di (auto)parodia e compassione per la fantomatica grande bellezza, per la grande bellezza dello squallore mondano, del pessimo gusto di esser decadenti in una città magica come Roma. Oppure per la grande bellezza dell'ingenuità provincialotta e vergine, snaturata dall'impatto con la metropoli e con la sua negativa ars vivendi? Jep Gambardella è veramente estraneo a quel mondo fasullo? Ci sono veramente una critica sociale e culturale e un desiderio di recuperare un rapporto fra la mondanità e una città come Roma che si fondi sui suoi patrimoni artistici e non sui trenini alle feste sulle note di remix di Raffaella Carrà? E ammesso e non concesso che tale critica sussista, non è una tesi banale, trita e epidermica? Roma è a suo modo protagonista de “La grande bellezza”, ma è davvero partecipe degli eventi o è solo un suo teatrino sminuito, plastificato, distante e documentaristico?
A farla da padrone, alla fine, è un amaro senso di incompiutezza: il talento in gioco è enorme e i primi quaranta minuti de “La grande bellezza” non fanno che confermarlo, ma si perde per la via, si accartoccia su se stesso finendo in una spirale di sterilità narrativa e concettuale. Vi si sta volendo vedere forse più di quanto addirittura esso volesse dire. ** e ½
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