Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Mi sembra la conferma di un talento registico originale, quello di Paolo Sorrentino, nonché una pellicola che ha il coraggio di confrontarsi con un modello ingombrante come quello de "La dolce vita" di Fellini, aggiornato alla crisi morale e spirituale che caratterizza la società odierna, ma senza il timore reverenziale che avrebbe potuto spingere Sorrentino sulla via di uno stile fellineggiante ma privo di anima e di personalità. La visionarietà tipica del riminese si esplicita in una serie di quadri spesso strepitosi dal punto di vista estetico e figurativo, dove assistiamo ad una Roma alto-borghese e aristocratica immersa in un nuovo “sonno della ragione”, tra salotti mondani vuoti e decadenti e festini in discoteca dove si celebra la nullità, a suo modo comunque rassicurante, di una classe sociale allo sbando. Jep Gambardella è il testimone privilegiato di questi rituali, scrittore colto da un precoce blocco creativo dopo aver pubblicato il primo romanzo e giornalista asservito alla stampa scandalistica, esattamente come il protagonista del capolavoro di Fellini del 1960. Quello che lo differenzia da Marcello Rubini, però, oltre all’età molto più avanzata, è anche una tensione verso la purezza spirituale e religiosa che troverà il suo culmine nell’incontro con una monaca “santa” nella parte finale, che forse gli schiuderà nuovamente le porte della creazione artistica, mentre il film di Fellini si chiudeva in maniera molto più pessimista con Marcello totalmente perso fra orge degradanti, mostri marini pescati dal mare e incapacità di comprendere il richiamo della ragazzina sulla spiaggia. Più che alla narrazione, spesso ellittica e allusiva e volutamente incompiuta, Sorrentino ha il coraggio di affidarsi al potere di suggestione delle immagini, ad una fotografia del grande Luca Bigazzi che sposa il contrasto fra carnalità e pulsioni serafiche con esiti di grande fascino (tranne, forse, nei flashback in cui Jep ricorda il suo primo amore, esteticamente piuttosto banali), ad una colonna sonora di Lele Marchitelli che spazia dal “Dies irae” di Zbigniew Preisner alla musica devozionale fino agli arrangiamenti dance di “A far l’amore comincia tu” della Carrà e “We no speak americano”. Il suo stile è troppo compiaciuto e autoreferenziale? A tratti vi sono delle scorie e dei “riempitivi”, indubbiamente: io ho trovato piuttosto gratuite, ad esempio, le brevi apparizioni di Antonello Venditti e Fanny Ardant, e si potrebbero trovare anche altri difetti, come la presenza di una Suor Maria icona di un ascetismo estremizzato, ma tutto questo finisce per contare solo in parte di fronte ad un film che si muove in una direzione comunque “cinematografica”, un film dove contano le invenzioni di regia, che sono tante, e anche i dialoghi che vorrebbero riflettere la vacuità di questi intellettuali finiscono per avere un senso molto preciso (ad esempio nella scena in cui Jep distrugge verbalmente le finte pretese di Stefania, interpretata da Galatea Ranzi: una sequenza decisamente al vetriolo). Toni Servillo si rivela ancora una volta insostituibile nell’universo di Sorrentino, creando una maschera malinconica e allo stesso tempo beffarda che appare in quasi tutte le scene del film, riempie la scena col suo talento, cita Flaubert a piene mani e regge con disinvoltura un trucco pesante quasi come quello de “Il divo”; fra i comprimari, bravo soprattutto Carlo Verdone nei panni di un tenero scrittore teatrale sull’orlo del fallimento, mentre la Ferilli, pur compiendo un indubbio progresso rispetto alle sue ultime scialbe prove, non dispone di un personaggio che possa stamparsi nella memoria dello spettatore, ha uno spazio limitato e caratterizza la sua matura ex-spogliarellista con un campionario di espressioni appropriato, ma francamente non proprio travolgente. Gli altri fanno tappezzeria, con l’eccezione, forse, della citata Galatea Ranzi e di Pamela Villoresi come madre di un ragazzo squilibrato. Ma il film, più che agli attori, appartiene a Sorrentino che ci ha messo molto del suo vissuto personale, e sarei felice se per lui arrivasse anche la consacrazione dell’Oscar (e non credo sarebbe una statuetta “rubata” come insinua la parte più ostile della critica italiana, mentre quella anglofona lo ha accolto con un entusiasmo davvero sorprendente).
voto 8/10
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta