Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
La grande bellezza è un sospiro ritmato, sospeso tra la smania di vivere e la voglia di buttare tutto all’aria. La sua anima è un istinto che tenta rabbiosamente di convertirsi in estetica, e a tal fine non si stanca mai di cercare l’armonia, attraversando a caso tutti gli accenti. Il suo principio è la curiosità, ossia la deferente attenzione per il nuovo, basata sulla certezza che la vera perfezione nasce da una ribelle forma di incongruenza, che si fa beffe delle regole, perché le supera con i suoi eroici virtuosismi. La sua potenza creatrice è come la forza dello sguardo che domina l’immagine, e la rende nobile e grandiosa, percorrendola con un solenne passo di danza. L’obiettivo scruta il cuore di Roma inquadrandola da lontano, spesso dall’alto, perché sorvolarla è l’unico modo per abbracciarla tutta, con rispettosa distanza e intimo ardore. I campi lunghi di Sorrentino ci porgono una città profonda e trasparente, le cui ariose ed essenziali architetture sono le cornici di un meraviglioso nulla, antico e aristocratico, distaccato come chi adora la propria elitaria vacuità, e ancor di più adora risucchiarvi dentro i futili desideri altrui. Quel vuoto colmo di pensosa venerazione vive, nella figura del protagonista – lo scrittore Jep Gambardella, il quale, dopo un solo romanzo, non scrive più da quarant’anni – come un’artistica interpretazione della decadenza, che è l’infinita scia di una fantasia lasciata andare. L’immaginazione è falsità, fintanto che la si coltiva, al fine di fissarla sulla carta; diventa autentica solo nel momento in cui la si abbandona al suo destino, restituendole la libertà. Sarà per questo che Jep non ha più voluto prendere la penna in mano. Si è rifiutato di mettere ordine nelle sue idee, assoggettandole a quello sterile rigore geometrico che si riscontra nelle scenografiche planimetrie della capitale, e che è soltanto una composta forma di rinuncia. L’addio deve essere graduale, crudelmente cosparso di granelli di speranza, per raggiungere quella trascinata amarezza che lo trasforma in una struggente espressione di resa. È difficile trovare il modo giusto di intonare quel canto estremo, evitando che suoni come una sconfitta, come un perentorio mai più che uccide il senso del dolore. Questo film rincorre a lungo quelle note, in un girotondo che attraversa il caos lasciando sfumare la follia, e seminando per strada l’ombra della morte. Rinascere alla consapevolezza che tutto è vano, che è magnificamente inutile e sublimemente assurdo, è la salvezza che consente ai colori del tramonto di farsi largo nel cielo, striandolo di nostalgia e di sogni ultraterreni. La mondanità, con il suo vagabondare lungo i viali della negazione e dell’oblio, è la sfibrante anticamera delle anime che aspettano di ritrovare le sembianze corporee delle loro aspirazioni tradite; a intrattenerle, durante l’attesa, è un illusionismo di maniera che rende seducente la menzogna. L’illusione, che invece è magia spietatamente pura, senza trucchi, è il mostro dal quale tutti vorrebbero fuggire. Solo Jep ha il coraggio di guardarla in faccia, fuori dal circo polveroso di una finzione che si sgretola, entrando con coraggio nel regno senza uscita della poesia finale: una tristezza che non piange, perché contiene la rivelazione di una vita intera, e compare, all’orizzonte, come luce crepuscolare che si accende.
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