Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
"Tu che lavoro fai?" "Io sono ricca". "Bellissimo lavoro". È questo lo scambio di battute che compendia l'esistenza da vitellone metropolitano di Jap Gambardella (interpretato da un Toni Servillo così strabiliante da superare se stesso), giornalista che si occupa d'arte e con un piccolo successo alle spalle come romanziere, L'apparato umano, scritto quarant'anni prima. Per concepire un nuovo romanzo, Jap vorrebbe cercare la grande bellezza che gli dia lo stimolo giusto. E invece, nella Roma più mondana e influente, con attici che guardano su Piazza Navona come sul Colosseo, Jap non trova che nani, paillettes, nobili decaduti che si vendono a cottimo, amici sfigati e feste ultrapacchiane nelle quali si immerge con programmatico cinismo. Senza contare che il suo lavoro lo mette a contatto con le forme più sgraziate e corrive di performing art o lo porta ad assistere al macabro rito della serializzazione del botulino, con una Serena Grandi irriconoscibile e un Massimo Popolizio di disarmante impudenza.
Sessant'anni dopo, di quella dolce vita romana di felliniana memoria - alla quale il film di Sorrentino rende un esplicito omaggio con tanto di sosta in via Veneto - non rimane che la smorfia plebea di una città decadente, nella quale il triste teatrino dei salotti-bene non è che lo specchio di un'intera civiltà in disfacimento, contrappuntato dal contrasto costante tra il classicismo impeccabile della Roma del passato e le ridicolaggini dell'arte di oggi, con bambine impegnate nell'action painting e acrobate fallite che si fracassano la testa contro un muro.
Superata la crisi della trasferta americana (This must be the place rimane un film inguardabile), Sorrentino recupera il suo smisurato talento mettendolo a servizio di un contenuto sottolineato con tale enfasi da sembrare didascalico (viviamo in un'epoca di piena barbarie), come se la preoccupazione per la messa in scena, l'uso ancora una volta straniante della musica, i contrasti fortissimi nel montaggio fossero diventati l'urgenza primaria del suo fare cinema. Ciò non toglie che La grande bellezza si candidi a essere un'opera di livello internazionale, capace di declinare un linguaggio cinematografico altissimo, nella quale lo sguardo sulla città non è mai "medio": o le terrazze dei mega appartamenti del centro storico, o il mirino di una macchina fotografica (un tributo ai paparazzi di ieri, che hanno passato il testimone agli orientali capaci di fotografare compulsivamente qualsiasi cosa) o le transenne di un convento di giovanissime suore. Un'opera, dunque, che dimostrerà che l'Italia non è soltanto il paese noto per le pezze e la pizza, ma anche per la grande bellezza prodotta da alcuni dei suoi cineasti.
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