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La grande bellezza

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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La recensione su La grande bellezza

di M Valdemar
4 stelle

To Rome with(out) love.

Centocinquanta lunghissimi minuti per teorizzare, descrivere, rappresentare l’umanità variamente avariata e le miserie che in essa vi albergano e gli abissi che ne inghiottono la spenta plumbea esistenza.
Terra regina del risucchio bramoso Roma, la città eterna(mente insozzata deturpata dalle infestanti presenze addobbate a loro insaputa a simulacri della stoltezza). Landa desolata eppure (o proprio perché) traboccante individui in perenne stato di schizzata (auto)affermazione e di alterato (auto)isolamento (da se stessi, innanzitutto).
Limbo viscoso tra gloria e decadenza, Roma è una puttana antica dalle grazie marcescenti, la cui grande immensa bellezza è ridotta a giaciglio sepolcrale per l’ingorda funesta manifestazione della (post)modernità.

Centocinquanta comatosi minuti per irridere la (sovrana) sciocca mondanità, e tutti gli elementi (vivi o morti o inanimati o fulminati che siano) che ne definiscono la grassa aura e l’intorpidente struttura esclusiva ed escludente. E quindi si aprano le danze: le nottate festaiole, i festini, le sniffate di droga, le iniezioni di botulino, le sfilate di cafoni e radical chic (gli odierni freaks), l’arte contemporanea che affoga nella vacuità, le ampie terrazze che si affacciano sul Colosseo, i trenini dell’amore (e della morte), i turisti, i nobili a noleggio, i religiosi a mollo (nel medesimo mefitico calderone) …
L'ironia facile colpisce fiera obiettivi facili facili. Nel mentre, l’incredibile innesto di spiritualità spicciola è stridente come gli insistiti acuti di un castrato ad un funerale.

Centocinquanta vaporosi minuti filtrati dall’ottica d’un tizio vizioso e ozioso, Jep Gambardella (s’immaginino gli sforzi per escogitare, ancora una volta, generalità strane, particolari), reuccio del submondo mondano, che comincia a nutrire dubbi, a porsi questioni sul senso della (sua) vita e del tutto. Annoiato, cinico, disilluso, arguto, la battuta sempre pronta, un codazzo di fedelissimi al seguito, un troiaio a disposizione ovunque: chi è (stato), cosa pensa, e dove vuole andare Jep?
Domande (e potrebbero essercene un’altra decina, una più banale dell’altra) che giungono alla stessa mesta conclusione: a chi interessa?
[se non, naturalmente, al gran burattinaio e all'operoso burattino].

Centocinquanta minuti infarciti di palese boriosa eleganza e indubbia abilità nel comporre inquadrature e pose, nell’ottenere un’estetica ricercata e certamente bella, intensa e satura (direttore della fotografia è il bravissimo Luca Bigazzi), nel frullare soavi musiche sacre e becere robacce disco dance (perlopiù invadendo se non ammorbando), nel cantare le funebri gesta di un disfacimento e un degrado morale ancor prima che fisico. Nel cantarsele e suonarsele, invero, giacché l’opera del pretenzioso Paolo Sorrentino è un (lunghissimo) esercizio di stile che ne svela bellamente la presunzione.

Centocinquanta minuti, o giù di lì, per non dire nulla e per non raccontare null’altro che una furbesca serie di ovvietà, imbellettate a dovere (e piacere del gran cerimoniere).
Fatalmente riutilizzabile la “clamorosa” rivelazione finale: «è solo un trucco».

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