Regia di Giuseppe Tornatore vedi scheda film
Due sociopatici sembrano fatti apposta per intendersi: lui è un battitore d’asta che porta sempre guanti per evitare contatti con il mondo, si rifiuta di usare il telefono cellulare e colleziona in segreto ritratti femminili (ottenuti in modo truffaldino); lei è la giovane erede di una villa, che da anni non esce più di casa e non vede neanche il custode che se ne occupa. Lo spettatore sufficientemente scafato, uno che in anni recenti ha visto Il genio della truffa o L’amico di famiglia (per non citare l’ovvio La donna che visse due volte, evocato da Sangiorgio nella sua recensione), capisce presto cosa sta succedendo: è in corso una manipolazione. Ci si mette anche una sceneggiatura marpiona, che butta lì un paio di frasi con sguardo d’intesa (“In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico”, “I sentimenti umani sono come le opere d’arte: possono essere il risultato di una simulazione”), e le musiche di Morricone che nei momenti clou ricalcano quelle di C’era una volta in America. Sono altresì chiare un paio di cose: che la nana autistica sempre seduta al bar non spara numeri a vanvera, e che la storia finirà in quel ristorante di Praga dove infatti il nostro eroe troverà rifugio per coltivare la sua nuova ossessione. Insomma, il punto non è indovinare cosa c’è dietro: è vedere se il colpo andrà a buon fine o se verrà sventato; così si resta costantemente in allerta per captare un lapsus, una smagliatura, un qualcosa che possa rivelare la verità al protagonista. Nessuna sorpresa, quindi, ma la piacevolissima sensazione di tenere desta l’intelligenza.
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